di Ariel Scher, Deporte y Literatura (20/10/ 2020). Traduzione di Andrea Meccia

Queste sono cose che succedono mentre i più sono distratti. Molti erano distratti e non perché la primavera del 1976 stava per annunciare il suo primo mese di vita o perché i sudori agonistici dell’Argentinos Juniors e del Talleres de Córdoba meritassero l’attenzione massima. In tanti erano distratti perché, in qualunque aggregato umano, a volte sono tanti e spesso sono tantissimi quelli che perdono l’attenzione in modo pigro e inopportuno e d’altronde queste sono cose che possono accadere al mattino, la notte o di pomeriggio, magari durante l’intervallo di una partita. Molti erano distratti e non si erano resi conto che Dieguito dai piedi belli come un giardino, dagli occhi ben aperti, con la certezza che tutto sarebbe stato incredibile, lui, il miglior quindicenne che il calcio mondiale avrebbe conosciuto, saltava, si allungava e camminava su di un prato rado che nel giro di poco lui avrebbe trasformato in paradiso. Molti erano distratti in quell’atmosfera quieta che Buenos Aires respirava a La Paternal il 20 ottobre del 1976. Non rendendosi conto che stava per iniziare una storia.

«Marandona entra Marandona», urlò il meno distratto fra i distratti che appoggiavano le loro suole Febo o le loro scarpette Flecha sui malandati spalti di legno di questo stadio ormai invecchiato. «Non entra Hallar?», gli chiese un nonno che si liberava della sua distrazione e desiderava che l’Argentinos, alle prese con uno 0-1 più che preoccupante, arrivasse al gol o, almeno, alla speranza del gol lasciando entrare sul terreno di gioco un centravanti esperto come Ibrahim Hallar. «No, si chiama Maradona. Il giovanotto si chiama Maradona e oggi fa il suo debutto», spiegò, correggendo ciò che doveva correggere, un professore che sedeva nella popular, il settore popolare, che non solo rettificò quel cognome che mai più nessuno avrebbe pronunciato male, ma che ricordò come in altri pomeriggi, uguali a quelli di quel mercoledì ma capitati di domenica, Maradona e non Marandona demoliva la Legge di Gravità, acrobazia dopo acrobazia, e riusciva, con un corpo che era il suo e in un contesto che invece apparteneva a tutti, a far ondeggiare la palla fino a quando qualcuno non gli ricordava che doveva farla tornare a terra.

Il professore che sedeva nella popular non si era sbagliato: era Maradona. E andò avanti senza fallo: se nel passato recente Dieguito aveva arricchito gli intervalli delle partite, quel giorno scendeva in campo per impreziosire ciò che sarebbe accaduto alla ripresa del gioco. El Beto Naftaly, che in quel momento era uno studente delle superiori scappato dalla lezione di educazione fisica e non il popolare medico che sarebbe stato in età adulta, prese il mento aguzzo tra le mani e le sue pupille di spettatore inquadrarono il cerchio del centrocampo. Mario de Floresta, un portierino appassionato e affidabile che già si vedeva proiettato nel mondo del commercio, fece ballare il suo magro busto e inchiodò il suo sguardo sui piedi di Dieguito, piedi che sembravano un giardino, magari per un presentimento, o forse per una casualità. Miguel Angel Bertolotto usò una calligrafia perfetta per scrivere, tra i suoi appunti di giornalista, le otto lettere del cognome del debuttante e sbatté le palpebre prima del primo passo con la stessa perplessità con cui, quasi un decennio più tardi, le avrebbe fatte sbattere nello Stadio Azteca, lui testimone diretto del gol più ispirato e famoso che germogliò da quei giardini che sono i piedi di Dieguito. Un tifoso dell’Argentinos tremò. Maradona no. Maradona invece no. Maradona non tremò perché, sebbene gli mancassero dieci giorni per compiere sedici anni, sebbene affrontasse una squadra di calciatori famosi e sebbene non conoscesse tutti i misteri che si annidano negli scarpini da calcio, sapeva quel che voleva e quello che poteva fare sul terreno di gioco. 

L’Argentinos era sotto quando Dieguito diventò parte del gioco e finì col perdere quando l’arbitro Roberto Maino fischiò la fine. Nel frattempo, il maestro Rubén Bravo, che era stato un artista del pallone e viveva quel pomeriggio nelle vesti di allenatore del Talleres, si rese conto che quella specie di bambino che aveva fatto irruzione nella partita lo aveva mandato in tilt, non senza godere della diversa configurazione che questo giocatore portava con sé. Juan Domingo Cabrera scrisse il suo nome negli archivi del calcio come il nobile centrocampista che sempre fu e, inoltre, come il proprietario delle gambe che Maradona sottopose al suo primo tunnel nella massima serie argentina. El Hacha Ludueña, disinvolto talento di Cordoba, corse tantissimo e si limitò a dire che per fortuna aveva segnato l’unico gol nel primo tempo perché poi, nel secondo, quel muchachito mise un tal spavento che minacciava di far passare la vittoria in secondo piano. E Rubén Giacometti seguì il finale quasi pronto per rientrare a casa sua, osservando il viavai dell’ultimo momento fuori dal campo e senza essere consapevole che per gli archivi di tutto il mondo e per le interviste che si sarebbero susseguite anniversario dopo anniversario sarebbe stato per sempre il calciatore che lasciò il posto a Maradona il giorno del suo debutto.

«Il ragazzino sarà un fenomeno», sentenziò, ancora una volta senza equivoco, il professore della popular circa 17 o 18 secondi dopo la fine della funzione. Passò ancora qualche minuto perché i professori e i non professori abbandonassero le malandate gradinate di legno di questo stadio che iniziava ad avere i suoi anni e si disperdessero fra le strade di cemento di Buenos Aires. Una lunga fila di cavalli e di cavallerizzi della polizia supervisionava, padrona di ogni cosa, la partita dei tifosi. «Rapidi che la polizia è bella carica», suggerì, in mezzo alla strada, un anziano a un altro che gli faceva compagnia. Chi riuscì a sentirlo non capì di cosa stesse parlando. Forse perché, perfino sotto una dittatura terribile che imponeva la vita ma soprattutto la morte, erano in tanti ad essere distratti.

Dieguito dai piedi che sembravano un giardino si fece la doccia, si cambiò, prese nota di ogni ricordo di quel pomeriggio e si incamminò verso il calcio del futuro. Nella vita che lo avrebbe atteso, da quei piedi sarebbero saltati fuori tanti fiori, frutti, misteri e gol da riempire un mondo, un universo. Sappiano l’umanità e la storia che, di fronte a un Maradona così, già da allora nessuno si sarebbe potuto distrarre.

Le cose belle si fanno sempre un po’ attendere … Come un gol al novantesimo

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