di Lawrie Mifflin, Daily News (1/10/1977). Traduzione di Alessandro Mastroluca

I Cosmos sono andati in Giappone e 27 mila persone hanno assistito all’allenamento. Sono andati in Cina, e in 80 mila si sono ammassati nello stadio di Pechino per vederli giocare. Sono andati in India, e i politici hanno litigato in Parlamento sulla distribuzione dei biglietti per le loro partite. Tre anni fa, nessuno in Giappone, in Cina o in India aveva mai sentito nominare i Cosmos. Oggi, [è stato] l’ultimo giorno di Pelé. Oggi al Giants Stadium, i Cosmos gli [hanno detto] addio, addio e grazie. Oggi, in uno stadio di football riempito di tifosi, Pelé [ha giocato] l’ultima partita di una carriera lunga 22 anni che è una leggenda nel mondo.

Raramente, o forse mai, un atleta è stato così universalmente acclamato come il più grande di sempre nel suo sport. Ma in tutto il mondo, in centinaia di lingue, sono tutti d’accordo sul fatto che Pelé sia il più grande calciatore di sempre.

In un’era in cui 400 gol sarebbero considerati un grande risultato in 22 anni di carriera, Pelé ne ha segnati 1280. A 17 anni, ha brillato nella sua prima Coppa del Mondo, guidando il Brasile al titolo nel 1958. Ne ha vinti poi altri due, nel 1962 e nel 1970, ritirando la Coppa Rimet.

Quando i club europei hanno iniziato a offrire milioni di dollari per il suo contratto, il governo brasiliano dichiarò la “Perla Nera” un tesoro nazionale, e ha impedito che fosse esportato a qualunque costo. Altri atleti si sarebbero potuti lamentare, ma Pelé ha continuato semplicemente a giocare alla grande con il Santos, il club della sua città.

Il Santos è rimasta l’unica squadra professionistica in cui abbia giocato prima che i Cosmos lo convincessero a rientrare dopo il suo ritiro, attirandolo con un contratto da 4,75 milioni di dollari e la sfida di rendere popolare il calcio nell’unica nazione che sembrava vederlo come uno sport minore.

Pelé ha vinto la sfida, ed è un tributo al suo talento atletico e al suo magnetismo speciale, quasi magico. Il calcio esplode negli Stati Uniti ed è uno dei più grandi traguardi nella lunga carriera di Pelé. Ecco perché i Cosmos e gli americani lo [hanno omaggiato] al Giants Stadium

«Spesso mi chiedo se tutte le belle cose che dicono di me siano vere» ha detto Pelé martedì scorso durante un banchetto in suo onore. «Solo una cosa so: nel mondo del calcio e fuori, ho fatto tutto con amore, e con tante persone che mi hanno aiutato, perché nessuno può fare nulla da solo».

Forse no. Ma Pelé più di chiunque altro, quasi da solo ha reso il calcio un grande sport qui da noi. La sua mera presenza ha creato pubblicità, prestigio e un futuro brillante per il calcio in America.

Ha attirato spettatori curiosi, che poi si sono innamorati del gioco che ama, e sono diventati tifosi regolari. Ha affascinato i bambini nei clinics in tutta la nazione, trasmettendo il suo amore per il gioco attraverso l’affetto per loro.

Ha conferito immediata rispettabilità alla North American Soccer League, e così facendo ha spinto giovani calciatori americani a migliorare le loro qualità. Ha anche contribuito a migliorare i loro salari, le condizioni di gioco, ha aumentato la loro fama. Giovani come Shep Messing, Werner Roth e Bobby Smith dei Cosmos possono considerarsi stelle della NASL grazie a Pelé.

Ha elevato la qualità della lega, attirando nella NASL grandi stelle straniere come Franz Beckenbauer, Giorgio Chinaglia, Gordon Banks, George Best. «Poter giocare con Pelé, il più grande del mondo, è un sogno per tutti i calciatori» ha detto Beckenbauer alla cena in onore di Pelé. «Il mio sogno è diventato realtà. Ho avuto grandi momenti nella mia carriera, ma l’onore più grande è stato giocare nella stessa squadra di Pelé».

Beckenbauer, capitano della Germania Ovest ai Mondiali del 1974, era uno dei cinque campioni del mondo presenti al banchetto. Gli altri erano Bobby Moore (Inghilterra, 1966) e tre brasiliani – Hilderaldo Bellini (1958), Ramos Mauro de Oliveira (1962) e Carlos Alberto (1970), compagno di squadra di Pelé quest’anno ai Cosmos.

«Anche se Pelé non avesse fatto nient’altro nel calcio, quel che ha fatto negli USA basterebbe a consacrarlo» ha detto Bellini.

Eppure tre anni fa, persone come Bellini, Mauro e Carlos Alberto scuotevano la testa, scettici di fronte alla sua decisione di trasferirsi in America. Credevano che la sua missione di rendere il calcio popolare qui sarebbe fallita, temevano che il suo nome venisse deriso. Invece, ha preso una lega derisa e l’ha elevata.

«Quando sono venuto qui la prima volta, ho avuto paura» ha detto Pelé, «perché ho chiuso la carriera da campione del mondo con la nazionale, e da campione del Brasile con il Santos. Ho un nome prestigioso, ma il calcio in America non era molto considerato. Se le cose non fossero andate bene, avrei rovinato tutta la mia carriera. Ma anche qui lascio da campione» ha detto, e un sorriso gli illumina il volto mentre ricorda il 2-1 contro Seattle nella finale della NASL. «È difficile credere che sia successo. Mai mi sarei aspettato che accadesse in così poco tempo».

Quello che Pelé non si sarebbe mai aspettato era vedere 77.691 spettatori al Giants Stadium il 14 agosto per la sfida di playoff Cosmos-Fort Lauderdale, il pubblico più numeroso mai visto in una partita di calcio in USA o Canada. O il 31% di incremento nel numero di presenze allo stadio nella NASL tra l’anno scorso e quest’anno. O l’affluenza record in altre otto città della lega, tutte registrate quando i Cosmos erano in campo.

Ora che Pelé ha detto addio, queste folle diminuiranno? Clive Toye, il presidente dei Chicago Sting che ha convinto Pelé a venire qui da presidente dei Cosmos, non la pensa così. «Il calcio in America non soffrirà per l’assenza di Pelé» ha detto. «È andato troppo avanti per regredire ora, è il più grande tributo di tutti per lui».

Pelé non si aspettava che tutto questo accadesse così presto, ma sentiva che un giorno sarebbe successo. «Sono venuto qui con una missione, perché credevo nel calcio» ha spiegato Pelé. «Credevo che mostrando il gioco agli americani, anche loro l’avrebbero amato. A calcio si gioca in tutto il mondo, nel calcio non si presta attenzione alla razza, alla nazionalità o alla religione. Per questo è un gioco speciale».

Poiché Pelé è una persona speciale, è stato capace di diffondere il suo messaggio missionario qui in tre brevi anni. Gli americani non hanno mai visto l’intero spettro del suo talento atletico; è arrivato a 34 anni, ha chiuso la carriera a 37 e una parte della sua brillantezza è svanita. Ma gli americani sentono tutto il calore della sua notevole personalità, la sua gentilezza e la sua umiltà, l’innocente piacere nel gioco del calcio. Sono queste le cose più importanti che ha portato in America. E fanno parte della leggenda di Pelé tanto quanto i suoi gol.

È tipico di lui questo commento: «Ogni bambino nel mondo che gioca a calcio vuole essere Pelé. Ho una grande responsabilità, mostrare loro non solo come essere un calciatore, ma come essere uomini».

Tipica della sua generosità è l’ora o più che trascorre, due o tre volte a settimana, firmando autografi sulle sue fotografie per i bambini che gli scrivono. «Forse non è piacevole» ha detto «ma un’ora non è un tempo troppo lungo da spendere se puoi far felici tante persone. Fa bene, ho tante cose buone nella vita».

Tipico della sua umiltà è il suo discorso ai compagni di squadra prima della finale per il titolo della NASL, nello spogliatoio di Portland il 29 agosto. «Ho detto loro che ci tenevo tanto a vincere questo titolo per loro, per ringraziarli di tutto quello che avevano fatto per me».

Voleva dire loro grazie, anziché crogiolarsi nella loro gratitudine nei suoi confronti. I suoi compagni erano meravigliati. «Una delle ragioni per cui abbiamo giocato bene a Portland è stata che volevamo vincere per Pelé» ha detto Werner Roth, il capitano dei Cosmos, uno statunitense. «Non per il tipo di calciatore che è, ma per il tipo di persona che è. Abbiamo imparato tantissimo da lui, dal modo in cui tratta gli altri. Avremmo potuto far sì che gli avvenimenti di quest’anno ci dessero alla testa, ma lui non si comporta così. Non l’abbiamo fatto nemmeno noi. E chi l’ha conosciuto, credo non lo farà mai».

Nell’ultima partita, Pelé [ha giocato] un tempo con loro e un tempo con il Santos in un simbolico ritorno al Brasile. Dopo, i Cosmos non giocheranno più con Pelé. Il pensiero del ritiro lo intristisce.

«Quando ho lasciato il calcio nel 1974, ho comunque continuato a giocare amichevoli, esibizioni. Ora è definito. Ora smetterò del tutto di giocare e una parte di me morirà. Ma un’altra parte comincerà, sarà l’inizio di una nuova vita. Psicologicamente sarà dura» ha aggiunto con un sorriso. «Penso che un giorno mi sveglierò, prenderò la mia roba e prima che me ne renda conto andrò verso lo stadio, perché è quello che ho fatto per tutta la vita. Devo ricordarmi oggi di andare in ufficio. Non so come mi sentirò dietro una scrivania, a firmare documenti e rispondere al telefono, perché per 22 anni la mia vita è stata il calcio».

Ma l’autocommiserazione non è nel carattere di Pelé. Nel suo libro, “Pelé’s new World”, ha scritto questa riflessione sulla vita da calciatore più grande del mondo:

«A volte mi chiedo cosa sarebbe successo se avessi subito un infortunio all’inizio della mia carriera come mio padre, e non fossi diventato un calciatore professionista. Tengo sempre in mente questo pensiero. Sono stato molto, molto fortunato per la vita che ho. Se non fossi stato un calciatore, sarei diventato un imbianchino, un operaio, un negoziante. Avrei vissuto una vita come tante, cercando solo di essere il migliore in qualsiasi attività. Per me è sempre stato semplice; ho desiderato solo di essere il meglio che potessi».

Di sicuro è stato il migliore. Ma più significativamente ha condiviso il suo meglio con chiunque riuscisse a raggiungere, anche in America dove ha accettato il rischio di macchiare la sua reputazione. Per questo migliaia di americani gli [hanno] reso omaggio.

Le cose belle si fanno sempre un po’ attendere … Come un gol al novantesimo

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