di Cristóbal Villalobos – Jot Down Cultural Magazine, 18/6/2016
Giornalista e storico, autore di Fútbol y Fascismo (Ed.Altamarea)

Traduzione di Roberto Brambilla

Al grido di «La Russia è colpevole» migliaia di spagnoli sono andati, per convinzione o per obbligo, a combattere nella steppa contro l’Unione Sovietica, al fianco dell’Asse. La División Azul ha accolto quegli spagnoli che hanno visto il vero inverno nella neve di Leningrado e del fiume Volchov. In quel momento nessuno poteva immaginarsi che la vendetta promessa da Ramón Serrano Suñer, il “cognatissimo”, ministro e factotum del regime, sarebbe stata posticipata di vent’anni. La vendetta sarebbe stata calcistica. O almeno come tale ce l’avrebbe venduta il franchismo.

«La vittoria sul nemico di base, l’esportatrice della rivoluzione mondiale, dell’idea mostruosa di cui abbiamo reciso la testa nel 1939», così il magnifico scrittore Manuel Vázquez Montalbán ha definito la vittoria della Spagna nella fase finale degli Europei del 1964, giocata contro l’Unione Sovietica, in cui un mitico gol di Marcelino ci ha permesso di alzare il nostro primo trofeo importante, dopo la medaglia d’argento alle Olimpiadi di Anversa del 1920 e fino all’epoca di Luis Aragonés e del tiki taka. Quarantaquattro anni di attese e quarti di finale

La Russia è colpevole! Colpevole della nostra guerra civile. Colpevole della morte di José Antonio. L’annientamento della Russia è un’esigenza della storia e del futuro d’Europa. (Ramón Serrano Suñer, il 23 giugno 1941, il giorno dopo l’invasione dell’Unione Sovietica da parte di Hitler)

L’apertura internazionale

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Spagna franchista sopravvive come un’anomalia che sta antipatica al resto del mondo: l’ultimo paese fascista, alleato, anche se non durante la guerra, delle potenze dell’Asse. Un Paese che in molte cose era ispirato al fascismo italiano e al nazismo e in quel momento rimaneva solo al mondo, isolato da una politica economica autarchica fatta di fame, razionamento e borsa nera. Fuori dall’ONU e dal Piano Marshall con cui gli americani hanno aiutato a ricostruire l’Europa distrutta del dopoguerra.

Le circostanze iniziarono a cambiare nel 1953, quando un Concordato con la Santa Sede e gli accordi bilaterali con gli Stati Uniti ebbero come conseguenza che il franchismo fosse accettato dal mondo occidentale. Gli americani non erano più preoccupati del passato fascista del nostro Paese, nascosto già da anni, ma della necessità di disporre delle basi aeronavali per proiettare le sue forze nel resto d’Europa in un ipotetico conflitto con il suo maggior nemico, l’Unione Sovietica. Nel 1959 l’alleanza venne siglata definitivamente. Eisenhower arrivò a Madrid e abbracciò Franco.

L’Europeo fallito

A partire da quel momento qualunque aspetto della vita sociale fu buono per aumentare il carattere europeo e “normale” del franchismo, dato che i pezzi grossi del regime erano ossessionati dall’ottenere il riconoscimento internazionale. Le Coppe dei Campioni del Real Madrid, l’Eurovision, le imprese sportive che si verificavano con il contagocce (Bahamontes, Carrasco, Santana) erano sfruttate dai media, dipendenti dal Movimiento Nacional [il partito unico durante il franchismo n.d.T] per esaltare la razza spagnola e rivendicare che con Franco non eravamo secondi a nessuno.

Il problema si presentò nel 1960, quando nei quarti di finale dell’allora chiamata “Coppa Europa delle Nazioni” la Spagna venne accoppiata con l’Unione Sovietica, l’unico nemico che rimaneva al franchismo e con cui non avremmo avuto relazioni ufficiali complete fino alla morte di Franco. Ideata da Henri Delaunay, la “Coppa d’Europa delle Nazioni”, oggi campionato europeo, era disputata da sedici squadre nell’arco di due anni, con partite ad eliminazione diretta di andata e ritorno, fino alle semifinali, quando le quattro squadre qualificate andavano alla sede finale del torneo per disputare gli ultimi due turni.

Era un’Europa divisa in due dalla Cortina di Ferro la Guerra Fredda rese difficile la prima edizione della coppa, le cui fasi eliminatorie erano iniziate nel 1958, con molti problemi, per coinvolgere le sedici squadre che dovevano parteciparvi. Nel maggio 1960 la Spagna doveva giocare i quarti di finale contro l’Unione Sovietica, ma le lamentele di Camilo Alonso e Luis Carrero Blanco, entrambi ministri di Franco, per il fatto che ci fosse ancora in Russia prigionieri spagnoli della División Azul, obbligarono il dittatore a prendere posizione sul tema. Franco chiese che le due partite si giocassero in territorio neutrale, volendo impedire il viaggio degli spagnoli a Mosca e le possibili azioni di opposizione al suo regime quando i comunisti avrebbero viaggiato in Spagna. Davanti al rifiuto sovietico la Spagna di  Ramallets, Di Stéfano, Kubala, Luis Suárez e Gento e di un Real Madrid invincibile sui campi d’Europa, perse l’opportunità di giocare la sua prima competizione europea.

La notizia ridicolizzò la Spagna in Europa per il fatto che uno dei grandi problemi per l’Urss potesse giocare nel Paese iberico era il rifiuto da parte del franchismo che i sovietici usassero la loro bandiera e il loro inno alla partita. Il quotidiano sovietico Pravda scrisse «Il regime franchista spagnolo ha paura della squadra del popolo sovietico». Nel Paese il fatto era talmente impopolare da essere nascosto dal Governo che neppure rese nota la decisione sulla stampa. Semplicemente si comunicò la qualificazione dell’Unione Sovietica, che poi avrebbe vinto il torneo, alle semifinali.

25 anni di pace e un campionato europeo

Franco, un po’ più distaccato dai compiti di governo, cominciò a interessarsi di più al calcio. L’arrivo dei rifugiati ungheresi in Spagna (Kubala, Puskas, Kocsis), così come i trionfi del Real Madrid e della Nazionale spagnola, erano considerati come propri dal dittatore, come scrisse Fraga nelle sue memorie. Così Franco iniziò a fare la schedina, firmandola con il nome di Francisco Cofran.

In questo contesto, nel 1964, i venticinque anni dalla fine della Guerra Civile iniziarono a celebrarsi in Spagna con il motto “25 anni di pace”, ideato dal Ministro dell’Informazione e del Turismo Manuel Fraga. Franco fu accolto da folle nelle città che visitò durante quell’anno tanto che si realizzò un documentario sulla sua vita, con l’imbarazzante titolo Franco, quest’uomo.

Con lo sforzo di apertura e la necessità di rivitalizzare l’immagine della dittatura, la Delegación Nacional de Deportes, dipendente dal Movimiento Nacional, aveva lavorato senza sosta con la FIFA per ottenere che la fase finale della “Coppa Europea delle Nazioni” si disputasse in Spagna per lavare la cattiva immagine del regime dopo il ritiro dell’edizione precedente.

Poco prima della finale ancora non si sapeva se Franco sarebbe venuto alla partita, giocata il 21 giugno 1964, con il Governo che temeva che Franco fosse obbligato a consegnare il trofeo al capitano dell’Unione Sovietica, prima che un alto funzionario propose che si dopasse la squadra ospite, come riporta il giornalista Fernández Santander.

Coordinata dal ministro Solis, che parrebbe abbia convinto il Caudillo durante una battuta di caccia ad andare alla partita, l’accoglienza di Franco al Santiago Bernabéu fu un’apoteosi, con centomila ugole a pronunciare il triplice grido chiave del franchismo «Franco, Franco, Franco!». Sua moglie Carmen Polo e il vicepresidente del Governo Agustin Muñoz Grandes, lo stesso che aveva comandato la División Azul in Russia, accompagnarono Franco nel suo palco

La strada verso la finale sognata

La Spagna viveva la difficoltà di dover affrontare il ricambio generazionale di una squadra che aveva fallito nell’ultimo Mondiale. A veterani come Gento si unirono giocarori indispensabili come Iribar, Amancio, Pereda, Zoco o Marcelino che attorniavano Luis Suárez, Pallone d’Oro, unico spagnolo fino a quel momento ad averlo vinto, stella dell’Inter di Helenio Herrera, una delle migliori squadre della storia.

Nel 1962 cominciarono le partite ad eliminazione diretta andata e ritorno. Romania, Irlanda e Irlanda del Nord si piegarono davanti alla squadra allenata da Villalonga, che entrò tra le prime quattro insieme a Danimarca, Ungheria e i campioni in carica dell’Urss

La fase finale si disputò tra il Santiago Bernabéu e il Camp Nou, terreno sui cui l’Urss piegò la Danimarca di Ole Madsen con personaggi come Voronin, Ivanov e Lev Yashin, ad ora unico portiere che ad oggi ha vinto il Pallone d’Oro, riconoscimento che a quell’epoca era solo per i calciatori europei.

Molto più faticoso fu per la Spagna sbarazzarsi di una Ungheria che viveva la sua seconda “età dell’oro”, in cui giocavano calciatori come Florian Albert e Ferenc Bene. Il gol di Amancio ai supplementari, certificò la qualificazione alla finalissima, davanti a 75mila persone che furono spettatori del 2-1 finale ai magiari. Nel palco, insieme a Muñoz Grandes, si poteva vedere il giovane principe Juan Carlos di Borbone, in un anno fondamentale per consolidare la sua successione come capo dello Stato.

La partita

Dopo il triplice grido di Franco, il pallone cominciò a correre sul prato della Castellana, in un match che sarebbe diventato nel maggior momento di gloria della Spagna fino ai gol di Torres e Iniesta. La Spagna, in blu, andò in vantaggio molto presto, con un gol di Pereda a cinque minuti dall’inizio.

«L’incredibile esplosione di giubilo» con cui il gol fu accolto, come riporta ABC, non durò che tre minuti, tempo necessario per il pareggio 1-1 dei sovietici grazie a Khusainov, che dopo l’errore di Fusté e Olivella, era riuscito a superare Iribar, insieme a Yashin, uno dei migliori portieri della Storia.

I russi ci mettevano la tecnica, mentre gli iberici spazzavano di rabbia e grinta sul prato di Chamartin, in un incontro in pareggio che si sarebbe deciso a sei minuti dalla fine, quanto tutti già aspettavano i supplementari. Marcelino ci avrebbe dato la Coppa e sarebbe diventato una leggenda

«Rivilla penetra sulla sinistra e prima di un intervento di un avversario, passa il pallone in avanti a Pereda. Quest’ultimo mette un cross forte a due palmi da terra che Marcelino grazie a un perfetto tuffo nell’aria, riesce a colpire di testa verso la porta di Yashin» così il quotidiano Arriba descriveva il gol con cui ci saremmo proclamati per prima volta campioni d’Europa.

Per sbaglio , per quarant’anni si è creduto che l’assist fosse stato di Amancio, dato che il NO-DO [Noticiario Cinematográfico Español, il cinegiornale del regime n.d.T] che non registrava la partita nella sua interezza, si perse il cross e ricorse al montaggio con un cross precedente di Amancio. Nel 2007 vennero diffuse le reali immagini del gol che dimostrarono che l’assist era di Pereda, poi altre telecamere ritrasmettevano la partita in più di una dozzina di Paesi in Europa.

La grande vittoria sul comunismo

Quando Lev Yashin si rivolse al giornalista radiofonico Joan Armengol, il governo franchista volle sapere rapidamente quello che aveva detto. Erano semplici commenti calcistici senza alcuna importanza, ma il significato politico che il regime dava all’incontro provocò il panico tra le autorità governative.

È che  Iribar, Rivilla, Olivella, Calleja, Zoco, Fusté, Amancio, Pereda, Marcelino, Suarez  e Lapetra avevano conquistato la “Coppa Europea delle Nazioni” «undici ragazzi che si stagliarono in maniera brillante, meritata e in maniera emozionale con il prezioso trofeo», ma venticinque anni dopo la Guerra Civile, la «Crociata» contro il comunismo, sul palco si trovava «il vero artefice della vittoria e della pace, Franco, acclamato da centoventimila persone» si scriveva nel giornale Arriba, il giorno dopo la partita.

Per Preston, in Franco, Caudillo de España,la stampa esaltò la vittoria come il culmine logico della vittoria di Franco nella Guerra Civile, fatto che provocò, che davanti a una simile adulazione, il dittatore si mostrasse contrario a ogni tipo di riforma. Esempio di questo fatto furono le seguenti righe di ABC «Dopo 25 anni di pace, dietro ogni applauso risuonava come un vero ed evidente sostegno allo spirito del 18 luglio.

Franco, vincitore del comunismo, era applaudito dagli spagnoli come il loro salvatore, apriva e chiudeva il notiziario della NO-DO, in cui si sentiva, nelle brecce della storia, l’inno dell’Unione Sovietica, come un’ironia della sorte.

Sulla stampa internazionale venne sottolineata la presenza sul palco del Bernabeu del dittatore. I giornali italiani come Il Tempo, il Messaggero o la Gazzetta dello Sport misero Franco sulle sue prime pagine, mentre il francese L’Équipe affermava che la Coppa d’Europa delle Nazioni era stata senza dubbio la Coppa della Pace, mostrando la sua preferenza per la squadra spagnola, come avevano fatto altri giornali dell’Europa occidentale, contrari all’URSS in piena Guerra Fredda.

Quando Olivella, capitano della Spagna, ricevette la Coppa dichiarò. «Questa vittoria la offriamo prima di tutto al Generalissimo Franco, che è venuto questa sera a onorarci della sua presenza e a sostenere i giocatori, che hanno fatto l’impossibile per offrire al Caudillo e alla Spagna questa vittoria sensazionale». Il cerchio si chiudeva, dalla Guerra Civile al Bernabéu. Franco «Sentinella d’Occidente» batteva ancora l’idra comunista.

Le cose belle si fanno sempre un po’ attendere … Come un gol al novantesimo

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