di Uri Levy – New Frame, 12/04/2021

Traduzione di Alex Čizmić

La nazionale palestinese si trova a un bivio: diventare una squadra di calcio competitiva o rimanere uno strumento politico utile a evidenziare le sofferenze palestinesi? Ad oggi, essere entrambe le cose è impossibile.

«È un sogno che si avvera», ha detto Rami Hamadeh a proposito del suo ritorno in nazionale, una chiamata che si era trasformata in un incubo. «È un momento significativo per me, e sono così entusiasta di riprendere il mio posto tra i pali della Palestina. È il posto a cui appartengo».

La convocazione di Hamadeh per le qualificazioni alla Coppa del Mondo 2022 contro l’Arabia Saudita è stata importante perché i palestinesi, che sono cittadini di Israele, sono esclusi dalla nazionale se giocano in campionati israeliani. È una politica non scritta che la Federcalcio palestinese (PFA) ha messo in atto in quanto tali convocazioni potrebbero normalizzare l’occupazione israeliana del territorio palestinese.

«Quando ho giocato la prima partita con la Palestina, avevo la pelle d’oca. Finalmente ho sentito di far parte della squadra del mio popolo. La mia squadra. È stata una sensazione così bella», ha dichiarato il 27enne che ha debuttato nel 2013 con l’Al-Fida’i, appellativo con cui è conosciuta la nazionale palestinese.

Successivamente, Hamadeh ha accumulato 28 presenze, avendo vinto ogni trofeo nazionale possibile nella West Bank Premier League con l’Hilal Al-Quds. Nel luglio 2020 ha ricevuto un’offerta dal Bnei Sakhnin, l’unica squadra araba della Premier League israeliana. Questo gli ha permesso di competere a un livello superiore, ma quando ha accettato l’offerta, Hamadeh ha temuto di perdere il posto in nazionale.

Aveva buone ragioni per preoccuparsi. Abdallah Jaber, un cittadino palestinese nato in Israele con 56 presenze in nazionale, era pronto a guidare l’Al-Fida’i, ma quando ha lasciato la Palestina per l’Hapoel Hadera in Israele, dopo non aver ricevuto lo stipendio per mesi, è stato calunniato e deriso dal presidente della PFA Jibril Rajoub e da molti altri nella comunità calcistica palestinese.

«Abdallah non giocherà mai più per la Palestina», disse Rajoub all’epoca.

Per Hamadeh, le cose sarebbero dovute andare diversamente perché gioca per una famosa squadra araba in Israele. Tuttavia, sorprendentemente, è stato escluso all’ultimo minuto per la partita contro l’Arabia Saudita a Riyadh. Fonti presenti al ritiro della nazionale hanno rivelato che le autorità palestinesi avrebbero fatto pressione sulla PFA per non schierare Hamadeh, soprattutto perché la partita era in programma il 30 marzo.

Noto come il Giorno della Terra, il 30 marzo è il giorno in cui i palestinesi manifestano contro l’occupazione e la confisca della loro terra da parte del governo israeliano. È anche il giorno in cui vengono commemorate le sei persone uccise dalle forze di sicurezza del governo israeliano nel 1976.

Senza Hamadeh, la Palestina è stata battuta 5-0.

PALESTINA LUOGO DI CALCIO

Per capire quanto è delicata la situazione di Hamadeh, bisogna sapere cosa ha passato il calcio palestinese fino ad oggi. È una storia lunga e complessa, tragica e stimolante, come quella del popolo palestinese stesso.

Il calcio arrivò in Palestina all’inizio del XX secolo. Studenti arabi di ritorno da Istanbul e immigrati ebrei provenienti dall’Europa orientale lo portarono sulle coste del Paese e il calcio si diffuse rapidamente, fino alla sua istituzionalizzazione giunta durante il dominio britannico.

Mentre la tensione tra le popolazioni araba ed ebraica cresceva gradualmente, furono fatti alcuni tentativi per formare una nazionale unita che rappresentasse tutte le comunità palestinesi del Mandato britannico. Il presidente del Maccabi Tel Aviv, Yosef Yekutieli, fondò nel 1928 la Mandatory Palestine Football Federation – la antesignana della PFA – che la Fifa riconobbe nel 1929. Solo un giocatore arabo accettò di partecipare. La rappresentanza generale dei club arabi all’interno della federazione era debole.

Nel 1948, in seguito all’uscita britannica dalla Palestina, scoppiò una guerra tra Israele e gli eserciti arabi. Migliaia di palestinesi furono uccisi, mentre centinaia di migliaia fuggirono o andarono in esilio in Giordania, Libano, Siria, nel resto del Medio Oriente e nelle aree che presto sarebbero diventate parte dello Stato di Israele.

Da quel momento, il calcio arabo palestinese venne “sospeso” per alcuni decenni. Ci furono numerosi tentativi di costituire una squadra palestinese, ma senza il supporto di un’istituzione statale il compito sembrò impossibile.

«Sono un cittadino del mondo, ma ora il mio cuore batte per la Palestina», disse nel 1998 l’ex presidente della Fifa Sepp Blatter – ora caduto in disgrazia – quando annunciò che la Palestina era diventata un membro della federazione che governa il calcio mondiale.

All’inizio, la nazionale era composta da giocatori di Gaza e della Cisgiordania. La mancanza di un’esperienza di livello professionistico era evidente e la Palestina ha faticato a uscire dalla mediocrità del calcio asiatico.

La seconda Intifada – un’ondata di violenti scontri tra palestinesi e Israele iniziata nel 2000 – ha ripetutamente interrotto le attività calcistiche. I giocatori venivano arrestati o trattenuti ai posti di blocco. Altri, come Jamal Ghanem da Tulkarem, furono uccisi.

LA NAZIONALE COME STRUMENTO PER DAR VOCE AGLI ABUSI SUBITI

Il calcio palestinese ha vissuto una rinascita nell’ottobre 2008. «Credo che sia un momento molto importante per il popolo palestinese e la famiglia del calcio palestinese», dichiarò Rajoub prima della prima partita allo stadio internazionale Faisal Al-Husseini, poco dopo la sua ascesa alla presidenza della PFA.

Rajoub non ha molta esperienza in ambito sportivo nonostante sia anche a capo del Comitato Olimpico Palestinese. È un alto funzionario dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Ha trascorso 17 anni in una prigione israeliana quando era giovane per varie attività di guerriglia e le autorità israeliane lo hanno etichettato come un “terrorista”. Ma sapeva come far riemergere il calcio palestinese dal baratro in cui si trovava.

Rajoub ha individuato le due lacune più significative della Palestina nella mancanza di una produzione costante di talenti calcistici e di una storia. La storia dell’identità palestinese. C’è stato uno sforzo combinato per colmare entrambe le lacune.

In qualità di politico ed esperto attivista anti-israeliano che conosce bene l’altra parte, Rajoub si è reso conto che una nazionale forte avrebbe potuto essere uno straordinario strumento per ottenere riconoscimento internazionale e legittimità per la Palestina. Uno strumento che avrebbe potuto supportare una più grande soluzione sostenibile, quella della creazione di uno Stato palestinese. Per risolvere entrambi i problemi, la Federcalcio palestinese ha investito nell’attività di scouting all’estero.

Schierare giocatori di origine palestinese provenienti dall’estero era qualcosa che la PFA stava già facendo, sin da quando la Palestina ha iniziato a disputare gare internazionali. Sono stati convocati sempre più giocatori provenienti da Israele, Giordania, dalla diaspora europea e sudamericana, in particolare dal Cile, dove è presente una numerosa comunità palestinese.

All’improvviso, grazie al calcio, l’identità palestinese si è diffusa ovunque, non solo nei territori palestinesi. Si trattava di una nuova identità robusta, sportiva, interculturale – persino universale – che urlava al mondo la sua presenza attraverso un campo di calcio e la maglia rossa dell’Al-Fida’i.

L’ATTENZIONE GLOBALE

La nazionale palestinese, che era una delle nazionali più deboli al mondo, è progredita enormemente negli ultimi dieci anni. Ha imparato, è migliorata e ha iniziato a vincere partite. Ha trionfato nella AFC Challenge Cup disputata alle Maldive nel 2014, un successo che le è valso una storica qualificazione alla Coppa d’Asia 2015 in Australia. Benché la Palestina abbia terminato la fase a gironi con tre sconfitte, l’amore che la nazionale ha ricevuto a Melbourne è stato tangibile. La storia della giovane nazionale senza risorse venuta da un Medio Oriente dilaniato dalla guerra ha fatto il giro del mondo.

Subito dopo, importanti nazionali arabe come gli Emirati Arabi Uniti e l’Oman hanno cominciato a giocare partite ufficiali in Cisgiordania. Ma la politica era sempre sullo sfondo. Rajoub ha cercato di far espellere Israele dalla Fifa in due occasioni, sostenendo che lo stato israeliano stava «danneggiando la libertà di movimento e la libertà di giocare a calcio» dei palestinesi.

Non ha avuto successo, ma le sue azioni hanno agevolato la formazione di un comitato che ha allentato le tensioni tra la PFA e la Federcalcio israeliana. Questo comitato ha favorito un maggior scambio di giocatori tra i due campionati: più di 75 cittadini israeliani hanno giocato in Palestina tra il 2015 e il 2018; un numero maggiore di israeliani palestinesi è stato convocato in nazionale, il che ha contribuito a consolidare l’identità dell’Al-Fida’i e a diffonderla tra la popolazione araba di Israele, che corrisponde al 20% del totale.

La Palestina ha raggiunto la posizione numero 73 del ranking Fifa, il suo miglior piazzamento, nel 2018 e ciò che ha reso più dolce quel traguardo è il fatto che Israele fosse al 98° posto all’epoca. Per la Palestina è stato come vincere un campionato. Poi, la politica ha colpito di nuovo.

Il controverso licenziamento del vittorioso allenatore Abdelnasser Barakat ha messo in luce presunti interessi stranieri dietro la decisione della PFA. Rajoub ha annunciato che Barakat sarebbe passato a un ruolo amministrativo nel novembre 2017. Julio Baldivieso, un allenatore boliviano vicino al dirigente saudita Turki Al-Sheikh, ha sostituito Barakat come allenatore. Baldivieso ha ottenuto il lavoro in Palestina presumibilmente dopo un accordo tra Rajoub e Al-Sheikh riguardante un sostegno finanziario saudita al campionato palestinese. Secondo diversi resoconti, questo presunto investimento non si sarebbe mai verificato.

Baldivieso è durato solo tre partite prima dell’arrivo dell’ex assistente di Barakat, l’algerino Noureddine Ould Ali. Nonostante queste vicissitudini, la Palestina si è qualificata per la Coppa d’Asia 2019, ottenendo i suoi primi punti in virtù dei pareggi contro Siria e Giordania.

IL FUTURO

A parte la devastante sconfitta contro l’Arabia Saudita, che ha spezzato il sogno palestinese di qualificarsi alla Coppa del Mondo 2022 e messo in pericolo le aspirazioni di qualificazione alla Coppa d’Asia 2023, la PFA si trova alle prese con gli effetti del Covid-19. La pandemia ha lasciato i campionati locali di Gaza e della Cisgiordania in una terribile situazione economica.

Mancano solidi investimenti a lungo termine nel calcio di base e in quello giovanile, e i palestinesi con cittadinanza israeliana stanno prendendo nuovamente la strada del calcio israeliano. Il calcio palestinese ha bisogno di decidere il suo futuro e scegliere se vuole diventare una nazionale competitiva o rimanere uno strumento politico utile a diffondere il messaggio della sofferenza che la Palestina deve subire per mano di Israele.

Se è la seconda opzione a prevalere, il progetto ha già raggiunto il suo apice. Ma se l’obiettivo è migliorare ed essere competitivi, allora bisogna ripensare alla decisione di escludere dalla nazionale i giocatori arabi, come Hamadeh, che militano nella Premier League israeliana.

Se ciò accadesse, aumenterebbero il profilo e la competitività della squadra, e con loro le possibilità dell’ennesima rinascita del calcio palestinese. Rajoub ha portato la nazionale palestinese dal dilettantismo al professionismo, e questo è un buon momento per portarla dalla sfera della sopravvivenza a quella di una maggior competitività. Se questo processo di crescita venisse condotto correttamente, la nazionale potrebbe poi usare la propria cassa di risonanza per far sentire la sofferenza dei palestinesi a un pubblico ancora più ampio. Ma per fare questo c’è bisogno di prendere decisioni difficili.

Le cose belle si fanno sempre un po’ attendere … Come un gol al novantesimo

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