di Miguel Lourenço Pereira, Corner Numero 11 (Ottobre 2020) – Traduzione di Alessandro Bai

Sì, è tutto vero: il Brasile fu eliminato più prematuramente che mai per colpa dei legni della porta di Goycochea, e la finale fu la prima di un Mondiale a contare una sola rete. In effetti, la media gol fu bassa e il fatto di venire dopo le due più belle edizioni di tutti i tempi di sicuro non aiutò. Eppure, la pessima reputazione che Italia ‘90 ha accumulato nel tempo è tutt’altro che meritata e, probabilmente, 30 anni dopo, potremmo dire che ci ha completamente fatto perdere la prospettiva di un Mondiale indimenticabile, pieno di momenti e personaggi iconici, che segnarono un profondo cambiamento nel modo in cui il calcio volle vedere sé stesso. Il marketing intorno all’edizione successiva, disputata negli Stati Uniti, e la gigantesca rivoluzione economica del gioco negli Anni Novanta, con l’esplosione della Champions League e della Premier League, hanno nascosto la realtà. Tuttavia, ci sono molti motivi per cui dobbiamo amare – e tanto – il Mondiale di Italia ‘90.

Nessun dorma e le cattedrali del calcio

Per coloro che si sono innamorati della struttura metallica di San Siro, della gigantesca copertura dello Stadio San Paolo o dell’Olimpico di Roma, o della perfetta struttura architettonica del Luigi Ferraris, c’è una novità. Nessuna di queste cose sarebbe esistita senza la Coppa del Mondo del 1990. Il Mondiale diede il via a una profonda rivoluzione negli antiquati campi da gioco italiani, tutti risalenti agli inizi degli Anni Cinquanta, stadi che non avevano nulla di bello esteticamente. Basta viaggiare con la macchina del tempo di Google per vedere come fossero questi stadi prima del Mondiale e per capire il cambiamento radicale. È vero, la maggior parte delle opere fu gestita, a distanza, da società connesse alla mafia, come poi rivelato dallo scandalo di “Tangentopoli”, e anche in questa famiglia ci fu un brutto anatroccolo, ovvero quel Delle Alpi di Torino che i tifosi della Juventus non riconobbero mai come casa e che, nel frattempo, è già stato demolito per fare spazio allo Juventus Stadium. In generale, però, ricordare gli anni d’oro del calcio italiano, dal 1990 in poi, vuol dire anche pensare a queste arene uniche e, soprattutto, a “Nessun Dorma”. Con la sua estetica innovatrice nelle trasmissioni televisive, le sue bandiere, la mitica mascotte Ciao, l’iconico pallone Etrusco (l’ultimo in bianco e nero) e quel modo futurista di mostrare i replay, Italia ‘90 aprì una porta sul futuro e, allo stesso tempo, un’altra sul passato. La colonna sonora di questo evento sarà per sempre un’opera, trasmessa quotidianamente nelle sigle che chiudevano le trasmissioni, nelle sintesi dei programmi sportivi e accompagnata dall’immagine delle bandiere italiane che sventolavano all’unisono. Un’opera così bella e epica quanto il torneo stesso, lontana dal ritmo latino delle edizioni precedenti e del rock’n’roll che avrebbe accompagnato il viaggio nella terra dello zio Sam. Un momento congelato nel tempo e nello spazio, grazie ai suoi accordi unici.

Roger, René, Conejo e il Mondiale di tutti gli altri

Quale altra Coppa del Mondo può vantare un portiere così matto da essere amato oltre ogni limite dai propri tifosi pur essendo responsabile dell’eliminazione della propria Nazionale? Quale altro Mondiale ha recuperato un giocatore ritirato, per imposizione del governo, trasformandolo nell’idolo di un intero continente? Non avranno vinto trofei ma hanno conquistato molti cuori, e se è vero che ci sono stati tanti tornei passati alla storia per squadre o calciatori memorabili, come Cruijff e Maradona nel 1974 e 1976, Paolo Rossi e il Brasile di Telê Santana nel 1982, Italia ‘90 è il ricordo di vari eroi provenienti da Paesi senza grande tradizione, o che superarono ogni aspettativa. Fu la prima coppa con una Nazionale africana ai quarti di finale, qualcosa di impensabile fino a quel momento, che trasformò completamente il modo in cui il mondo avrebbe guardato al calcio del continente nero nei decenni a venire. La saga del Camerun cominciò con la vittoria inaugurale contro i campioni in carica argentini a Milano e divenne epica prima con l’eliminazione della Colombia e poi con l’agonia vissuta contro gli inglesi, più volte costretti alle corde. I colombiani stessi vissero una vera favola, finita però prima del previsto dopo il celebre errore di Higuita. Insieme alla capigliatura di Carlos Valderrama e alla velocità di Faustino Asprilla, però, il portiere fu una delle grandi rivelazioni del torneo.

Italia ‘90 fu anche il Mondiale della consacrazione per la Costa Rica, eliminata sempre agli ottavi, un percorso partito dalla squalifica del Messico, di cui prese il posto. Dopo avere utilizzato una divisa simile a quella della Juventus per ottenere il supporto dei tifosi locali nella prima partita del torneo, i centroamericani superarono un gruppo ostico con Brasile, Svezia e la sempre deludente Scozia per raggiungere per la prima volta gli ottavi, spinti dai tiri decisivi di Medford in attacco e dalle parate di Luis Conejo, uno dei portieri iconici della competizione, il cui infortunio può essere ritenuto tra le cause dell’eliminazione arrivata contro la Cecoslovacchia. 

Senza altrettanti colori, ma con un percorso impeccabile, anche l’Irlanda, che aveva debuttato in un grande torneo solo due anni prima, fu protagonista di Italia ‘90, prima di diventare una delle squadre con più hype in tutta Europa all’inizio degli Anni Novanta. Non giocavano bene, ma erano pragmatici e, soprattutto, fecero divertire i propri tifosi come nessun’altra. Dopo aver superato senza sconfitte un girone nel quale c’erano anche inglesi e olandesi, furono capaci di eliminare la Romania negli ottavi per poi arrendersi soltanto nei quarti di fronte ai padroni di casa, ottenendo un risultato ineguagliato ancora oggi. Allo stesso punto si fermò la Jugoslavia, che era “il Belgio” di quei tempi. Una generazione brillante di giocatori che si prese la scena tre anni prima al Mondiale Under-20 del Cile e che vide molti dei suoi componenti diventare campioni d’Europa un anno più tardi, con la Stella Rossa. Era il classico outsider che molti tifosi avrebbero supportato come seconda squadra e che, in effetti, non deluse le aspettative, ben disimpegnandosi nel “gruppo della morte” contro Germania e Colombia, prima di eliminare la Spagna e andare a sbattere contro le mani di un ispirato Goycochea, il portiere che decise i calci di rigore a favore dell’Argentina. In questa squadra, che sembrava pronta a divorare il mondo, c’erano giocatori come Savićević, Šuker, Prosinečki, Jarni, Bokšić e Stojković, ma soltanto pochi mesi dopo, lo scoppio della guerra dei Balcani pose fine a questo sogno. Parte di questa generazione illustre, otto anni più tardi, raggiunse il terzo posto nel Mondiale di Francia con la Croazia, rendendo chiaro che, se non fosse stato per la guerra, probabilmente avremmo vissuto una decade segnata dal calcio jugoslavo.

Le lacrime di Gazza e le grida di Diego

Ogni Mondiale ha bisogno di momenti iconici, ed è difficile guardare alle future edizioni, così decaffeinate ed europeizzate, per ritrovare questi eroi insperati o momenti di sfida con il destino. Italia ‘90 non ebbe questo problema – dalla seconda “Mano de Dios”, che salvò l’Argentina da un’eliminazione ai gironi contro l’Unione Sovietica, agli insulti dello stesso Maradona agli italiani durante l’inno argentino nella finale di Roma; senza dubbio, anche questo fu il Mondiale di Diego. Non fu brillante come quattro anni prima, ma allo stesso tempo fu ben distante dalla delusione lasciata dal suo passaggio a Spagna ‘82. Maradona veniva all’epoca dalla conquista del secondo scudetto col Napoli e, con la caviglia completamente devastata, fu l’uomo dei fatti impossibili e della polemica che, da lì in avanti, non lo avrebbe mai abbandonato. Dal passaggio a Caniggia contro il Brasile, in una partita soffertissima che assunse tinte albicelesti, fino all’errore dal dischetto contro la Jugoslavia, ci fu un po’ tutto Diego in quel Mondiale. Prima della semifinale, lanciò una provocazione ai tifosi italiani chiedendo che i napoletani lo sostenessero, dopo aver detto di sentirsi napoletano ogni giorno dell’anno. Nella polemica finale, la rabbia di Maradona fu evidente in ogni momento della partita, forse perché la sua tendenza all’esagerazione aveva già finito per prendere possesso del personaggio, ma è impossibile ripensare a quel torneo senza restare ipnotizzati dalla sua evoluzione.

L’altra faccia di questo specchio è fatta dalle lacrime genuine di Paul Gascoigne. Gazza era uno sconosciuto per il mondo, una rarità persino per gli inglesi, e fu vicino a non essere neanche convocato per via di quel suo stile ribelle e un po’ buffone, ma finì per essere l’anima e il cuore di un’Inghilterra che, ancor prima di partire, sapeva che il proprio CT Bobby Robson non avrebbe rinnovato, dopo un Euro ‘88 deludente. Contro ogni pronostico, gli inglesi fecero un torneo sorprendente, superando i rivali che gli si presentarono quasi in ordine di difficoltà, fino a scontrarsi con il proprio aguzzino, la Germania, e una nuova maledizione, i rigori. In un torneo nel quale i campioni furono meccanici persino nelle espressioni facciali, implacabili e simili a macchine in stile “Terminator”, le lacrime di Diego e Gazza diedero umanità a due delle squadre che arrivarono più lontano.

Totò e la Bella Italia che nessuno ricorda

Si parla molto del Mondiale italiano, ma poco dell’Italia. Una dimenticanza che non rende giustizia a una bella generazione, allenata da Azeglio Vicini, che giocava uno splendido calcio, sicuramente superiore a quello che avrebbe esibito nelle edizioni successive sotto la guida di nomi con un pedigree di altro livello, come Arrigo Sacchi, Cesare Maldini o Giovanni Trapattoni, per non parlare dei campioni del mondo del 2006. Sì, l’Italia del Mondiale giocato in casa fu una squadra superiore a quella campione del Mondo otto anni prima o a quella che avrebbe trionfato battendo la Francia di Zinedine Zidane sedici anni dopo. Ma fu, soprattutto, una squadra molto sfortunata per tutta la durata del torneo. Dominatori assoluti di quasi tutte le partite, ebbero grossi problemi legati all’efficacia offensiva, nonostante potessero contare su alcuni dei migliori giocatori dell’epoca, come Gianluca Vialli, Roberto Mancini, Andrea Carnevale o Roberto Baggio. I primi due uscirono sfiniti dalla competizione, e il giovane “Divin Codino” stava soltanto cominciando a lasciare il segno, regalando autentici momenti di magia, ma nessuno di loro fu l’eroe di questa Nazionale che, in difesa, vantava il talento assoluto di Baresi e Maldini, o quello di Ancelotti, Donadoni e tutti gli altri a centrocampo. Fu una riserva, quasi anonima, a diventare il simbolo del percorso dell’Italia al Mondiale, un Salvatore che quasi tutto il mondo ricorda come Totò, di cognome Schillaci. Non per caso, si parlò di lui come “Salvatore della patria”. Senza grande stile, ma con il vizio di gonfiare le reti avversarie, Schillaci arrivò al torneo con una sola convocazione precedente, iniziò in panchina e finì da eroe. Fu lui a togliere le castagne dal fuoco nei match complicati della fase a gironi e, a partire da quel momento, i tifosi cominciarono a guardare al siciliano in maniera diversa. Acquistato dalla Juventus l’estate precedente, godeva di poco credito anche a causa del periodo difficile della “Vecchia Signora”, tuttavia finì il Mondiale con la Scarpa d’Oro ai piedi. Non fu mai più capace di ritrovare quella forma, né con i club né in Nazionale. Dei suoi sette gol con la maglia azzurra, sei arrivarono in quella coppa, un’esperienza che, come in uno di quei film di Federico Fellini, fu tanto travolgente quanto fugace.

L’ultima festa prima della rivoluzione delle leggi del gioco

Il mondo del calcio non fu mai più lo stesso a partire dal 1992. L’introduzione della nuova regola che impediva al portiere di prendere la palla con le mani dopo un retropassaggio cambiò per sempre il gioco e diede al calcio un ritmo totalmente diverso. Questa modifica, assieme al ritocco della linea del fuorigioco, entrò in vigore due anni dopo Italia ‘90, complici le lamentele su un torneo troppo difensivo, soltanto perché i giocatori si limitarono a fare ciò che facevano da decenni, cioè giocare con il tempo e con il risultato. Negli Stati Uniti, nel 1994, fu già un altro sport, più dinamico e con meno tempi morti, ma anche prima di questa rivoluzione che criminalizzò il Mondiale italiano esisteva il calcio di alta qualità. La grande differenza tra la Coppa del Mondo del 1990 e quella precedente fu, senza dubbio, l’altitudine del Messico e il caldo delle partite disputate a mezzogiorno, che provocava un ritmo più basso e un gioco più aperto, dando più spazio al talento individuale per brillare. In un torneo disputato in Europa e con le gare in notturna, il ruolo della tattica fu sempre più rilevante e così avvenne anche in questo Mondiale, che segnò l’apogeo del 3-5-2, ai tempi non necessariamente legato a un approccio esclusivamente difensivo. Tutte le squadre arrivate in semifinale (Germania, Argentina, Italia e Inghilterra) puntarono su una difesa a tre, ma ciascuna di queste lo fece in modo particolare. Per i tedeschi, era un modo per controllare il ritmo della partita a partire da dietro, per sfruttare anche le doti dell’instancabile Lothar Matthäus, in veste di direttore d’orchestra. Per gli argentini era invece un’arma prettamente difensiva, che scommetteva sul logoramento degli avversari e sulla speranza che il genio di Maradona e la velocità di Caniggia potessero rompere l’equilibrio. Gli inglesi videro nel 3-5-2 uno strumento per sopperire alla mancanza di esterni di alto livello, fatta eccezione per John Barnes, nel tentativo di rendere protagonisti i centrocampisti più creativi, come Paul Gascoigne, Peter Beardsley o Chris Waddle, nella zona alle spalle dell’attaccante letale che era Gary Lineker. Infine l’Italia, pioniera nell’utilizzo del libero, si sentì a suo agio con un sistema che consentiva un’organizzazione fluida ed equilibrata tra una difesa solida e un attacco pieno di creatività. Il successo del 3-5-2, che veniva dalla Coppa del Mondo messicana, seppur in molti casi in versioni decisamente più offensive, scomparve con il cambio di interpretazione del fuorigioco, che segnò la fine della tendenza a indietreggiare verso il portiere e, contemporaneamente, il trionfo della difesa a zona e del pressing, portati all’apice dal Milan di Sacchi e dal Barcellona di Cruijff nelle competizioni europee.

Eroi che arrivano, eroi che se ne vanno

Italia ‘90 segnò un punto di svolta nella storia del calcio moderno. Fu l’occasione per dire addio a vari eroi degli anni Ottanta e presentò al mondo alcune delle stelle della decade successiva. Fu il primo Mondiale della Romania di Gheorghe Hagi, l’uomo che aveva contribuito a rendere lo Steaua una delle grandi squadre di fine anni Ottanta e che, in Italia, riuscì a condurre i suoi connazionali fino agli ottavi di finale, il miglior risultato mai raggiunto allora dai romeni, ulteriormente migliorato quattro anni dopo negli Stati Uniti, quando tra le eliminate ci fu anche l’Argentina, orfana di Maradona, positivo al doping dopo la gara con la Nigeria.

Con Hagi debuttarono anche altre stelle di questa meravigliosa generazione romena, che avrebbero poi scritto una pagina importante del gioco negli anni a venire, come Gheorghe Popescu, Marius Lăcătuș, Florin Răducioiu o Ilie Dumitrescu. Italia ‘90 fu anche il primo Mondiale di un giovane Paolo Maldini, già una grande stella del calcio italiano a soli 21 anni e all’inizio di quel percorso beffardo e sofferto con la maglia azzurra, che lo avrebbe visto disputare le tre Coppe del Mondo seguenti per poi mancare in quella del 2006, vinta proprio dall’Italia.

Romario, per molti uno dei più grandi attaccanti di tutti i tempi, fu la stella del Mondiale del 1994 insieme al suo partner offensivo Bebeto, ma quattro anni prima entrambi furono protagonisti marginali del torneo. Nella Seleção del 1990 c’erano già alcuni degli elementi che avrebbero formato la base del Brasile che vinse la sua quarta coppa negli Stati Uniti, mischiati ad alcune figure chiave del calcio brasiliano degli anni Ottanta, specialmente nella difesa a tre tanto discussa scelta dal tecnico Lazaroni.

Anch’essa vestita di giallo e sul punto di diventare una delle nazionali sulla cresta dell’onda nella prima metà degli Anni Novanta, durante il Mondiale italiano la Svezia era una squadra in costruzione, che però diede modo di apprezzare i lampi di alcune grandi figure del futuro, come un giovane Tomas Brolin. Dall’altro lato, si trattò dell’ultima occasione dell’Unione Sovietica – sciolta poco dopo – per brillare in una Coppa del Mondo.

Ancora una volta giunta alla competizione con una buona rosa, la Spagna finì di nuovo per deludere. Questa volta a perdere un’occasione d’oro fu la “Quinta del Buitre”, la generazione composta da giocatori del Real Madrid, dei quali solo Míchel si dimostrò all’altezza delle aspettative.

Questa coppa segnò un radicale cambiamento generazionale. Fu l’ultima esibizione di giocatori che avevano brillato nei dieci anni precedenti, come il belga Jan Ceulemans, l’austriaco Toni Polster, l’uruguagio Enzo Francescoli o Marco van Basten, che a causa degli infortuni appese le scarpe al chiodo due stagioni dopo. 

Nell’edizione seguente, l’assenza di Nazionali storiche come l’Inghilterra significò, in retrospettiva, che quello disputato in Italia fu anche il primo e ultimo Mondiale di Paul Gascoigne, oltre a rappresentare il passo d’addio per leggende come Peter Shilton e Gary Lineker.

Senza violenza. Senza drammi.

Specialmente tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del decennio successivo, era facile creare un ambiente violento attorno a una partita di calcio, soprattutto se ad essere coinvolti erano i tifosi inglesi. I britannici erano già stati squalificati dalle competizioni europee cinque anni prima e, dopo il dramma dell’Heysel, ci fu ancora Hillsborough e diversi altri episodi di scontri tra hooligans, sia negli stadi inglesi che nelle partite in trasferta dei “Tre Leoni”. Proprio per questo, l’organizzazione del torneo prevedeva, di proposito, che i match dell’Inghilterra della fase a gironi fossero disputati in Sardegna, così da controllare eventuali episodi violenti in un gruppo che comprendeva anche i sostenitori olandesi e i rivali di sempre, gli irlandesi. Ciò che accadde fu che, contrariamente a tutti i pronostici, non ci fu alcun momento di tensione. Gli inglesi e la loro Nazionale furono accolti con calore dai sardi e, anche quando il torneo li portò a giocare a Bologna, Torino e Roma per le fasi seguenti, i britannici si comportarono bene come mai prima. Così, quello che si preannunciava un Mondiale violento finì per essere l’esatto opposto, permettendo di iniziare a ripulire l’immagine associata fino a quel momento al tipico tifoso inglese.

L’aspro confronto tra camerunensi e argentini e lo scambio di insulti e sputi tra Rijkaard e Völler furono così gli episodi più duri di questa coppa che, grazie all’assenza di violenza e drammi nelle strade, diede spazio alla pace e l’amore tra gli amanti del gioco.

Il titolo delle due Germanie

Il trionfo categorico e indiscutibile della Germania non deve essere visto soltanto come un momento emblematico per la storia del calcio, ma anche per la geopolitica mondiale. I tedeschi arrivarono in Italia qualificati come Repubblica Federale, e con la concreta possibilità che la sua vicina e rivale ideologica, la Repubblica Democratica, potesse ritornare a partecipare al Mondiale 16 anni dopo la prima apparizione del 1974.

La sconfitta di Vienna contro l’Austria nella gara decisiva, alla vigilia della caduta del Muro di Berlino, liberò la FIFA di un problema gigantesco, dato che il crollo di quella barriera significò anche la fine dell’esistenza politica della Germania Est, che fu annessa senza discussioni alla versione occidentale e capitalista. Pur non potendo contare sulle stesse qualità calcistiche dei vicini, anche dal versante orientale del muro c’erano buoni giocatori. La prova vivente fu Matthias Sammer, vincitore del Pallone d’Oro 1996.

Anche i gol di Ulf Kirsten avrebbero dato un contributo cruciale alla Mannschaft ma, nonostante l’unione politica a partire dalla fine del 1989, la federazione riunificata decise che non aveva senso attuare modifiche alla squadra che si era qualificata a Italia ‘90 e, così, non ci fu alcun rappresentante della Germania Est nella Nazionale che trionfò contro l’Argentina. I primi sarebbero arrivati soltanto a partire da Euro ‘92.

I festeggiamenti euforici per le strade di Berlino e di tutte le città dell’antica Germania Orientale dopo la conquista del terzo titolo mondiale – il primo vinto da nazione unita – fu anche una celebrazione della nuova Europa che stava per arrivare, appoggiata sul peso politico ed economico della Comunità Europea che si formava e che avrebbe dato origine all’Unione Europea. Per questo, è impensabile non guardare a questa epoca come un momento di fraternità e unione in un continente che era stato lacerato da due grandi guerre, seguite da una pace con molta tensione negli anni della Guerra Fredda. In fondo, il calcio è proprio questo, farsi la guerra ma con gli scarpini anziché le armi, e Italia ‘90 fu l’ultimo Mondiale a rappresentare questo ideale alla perfezione. È il motivo per cui non si può fare altro che amare questa coppa dal profondo del cuore.

(Si ringraziano l’autore Miguel Lourenço Pereira e la rivista Corner per la disponibilità e la collaborazione) 

(Si ringrazia Weekend Offender Milano per l’utilizzo dell’illustrazione in copertina)

Le cose belle si fanno sempre un po’ attendere … Come un gol al novantesimo

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