di Federico Pinea e Matías Cavallaro – El Equipo – Deportea online 1/5/2021

Traduzione di Andrea Meccia

Walter Saavedra entrava furtivamente negli stadi di Mar del Plata per fare poi il suo ingresso in una cabina con tanto di registratore, con la ferma decisione di raccontare per se stesso la partita che si materializzava davanti a alle sue narici fino a quando in una radio, persone informate delle sue gesta, gli hanno aperto le porte del racconto sportivo. Sono passati quarant’anni dai suoi esordi e in cui Saavedra ha lavorato per diverse emittenti: América, Rivadavia, Mitre, Belgrano e Nacional, solo per citarne alcune.

Nel frattempo, ha attraversato mille storie e ha condotto la sua carica espressiva verso la poesia e la prosa. Oggi, lavora per radio SOL FM 91.5, emittente di Santa Fe.

Come fai a tenere prigioniero l’ascoltatore quando devi raccontare una partita in cui non ci sono azioni pericolose?

Devi usare fino allo stremo tutte le risorse da un punto di vista linguistico ed emotivo. A volte, nelle peggiori partite sono nate le migliori radiocronache. Bisogna andare a cercare da qualche parte le emozioni che non ti vengono offerte. Il radiocronista non mente, mentre, in realtà, esagera. Effettivamente noi radiocronisti siamo degli esagerati. A volte diciamo che la palla ha sfiorato il palo mentre è finita fuori di due metri. Siamo lontani dai giocatori e nella cabina radio non c’è un monitor per rivedere la giocata. Tutto prende forma in quel momento e il lavoro si realizza attraverso la parola che uno utilizza.

Preferisci stare allo stadio o nello studio della radio?

Lo stadio, tutta la vita. In questi tempi di pandemia, i club di Primera División si sono accordati lasciando fuori la stampa. Accreditano solo quelli del posto e alternative non ce ne sono. Non mi piace per nulla parlare alla radio e guardare un televisore. È come fare un karaoke in un bar alle due del mattino. Uno pensa di cantare mentre sta solo facendo un gioco di mimica.

Che differenza c’è secondo te, da radiocronista, nel fatto che non ci sia pubblico sulle tribune?

Tu ascolti una trasmissione di radio in questi giorni e sai che i rumori di fondo sono una invenzione. È un nastro registrato che riproduce costantemente il coro di una tifoseria, che in realtà non c’è. C’è un vuoto. La colonna sonora di fondo è una cosa con il pubblico, un’altra senza. A volte costa fatica entrare nel clima giusto. A me poi piace arrivare presto per vedere come cambia lo stadio ogni 15 o 20 minuti, perché, in un attimo, è tutto vuoto, si aprono le porte e hai 500 persone, che poi si aggiungono una dopo l’altra. Ormai è da più di un anno che la situazione è del tutto differente. È un altro clima, quasi di plastica.

Alcuni autori, artisti, raccontano che nei loro quadri, testi o rappresentazioni liberano emozioni e si rappresentano così come sono. Cosa liberi nel tuo racconto? Cosa provi quando devi gridare un gol, quando le parole vengono fuori?

Sono un calciatore frustato. Ho provato a giocare, mi sono rotto il ginocchio, mi hanno operato, non andò bene e non ho potuto proseguire. Per una persona che aveva soltanto un pallone conficcato nella testa, a 17 anni rendersi conto che con il calcio giocato aveva chiuso è stato un colpo tremendo. Io sono uscito per strada in cerca del calciatore che non ero più, a cercare lavoro. Dei tanti lavori che ho fatto, quasi nessuno mi piaceva, non avevano nulla a che vedere con me. Fino a quando non è apparsa la radio e ha cambiato la mia vita. Nel trasformarmi in un narratore, sono un pochino ancora quel giocatore. Lo vivo con intensità. Il grido del gol è il massimo che puoi avere in quel ruolo. Butti fuori i “cani dall’anima” urlando un gol di qualcuno che non ti appartiene e che tu non hai realizzato. È un lavoro che richiede tanta emozione, è un’arte. Raccontare alla radio è leggere a voce alta ciò che i giocatori scrivono con i piedi. Chiunque può fare una radiocronaca, ma farla bene è un’altra cosa. Occorre avere un buon flusso di voce, un buon colpo d’occhio, conoscere il regolamento, una gran dizione, cultura generale e, cosa fondamentale, uno stile. Molti narratori fanno buone cover, ma non sono loro stessi, sono l’altro, sono un tributo.

Hai riscontrato delle differenze rispetto alla preparazione del lavoro o nel tuo approccio emotivo del fine settimana con questa nuova realtà?

Nessuna differenza, assolutamente. Ho un profondo amore per la radio e sono quaranta anni che lavoro con lei. Preparo le trasmissioni come sempre: vivo tutta la settimana pensando alla partita che verrà. Arrivo allo stadio con allegria e, se mi tocca raccontare con il monitor, brontolo di rabbia. Una cosa è quello che ti mostra il cameraman, che in quel momento si sofferma sul calciatore che si sta allacciando gli scarpini mentre attorno a lui succedono altre cose. Al di là di tutto, vivo tutto con grande intensità. Raccontare il calcio è felicità pura.

Ci racconti il tuo schema di preparazione delle partite?

Pongo attenzione sempre sulle rivalità, su quali giocatori scenderanno in campo, che tipo di calciatori sono. Immagino attaccanti abituati a far gol, i loro soprannomi, ne guardo biografia ed aneddoti curiosi sulla loro vita. Quando dormo o quando sogno, nella mia testa si materializzano delle giocate. Cerco frasi, parole, metafore, penso al titolo di un film che può calzare a pennello, ma anche a quello di un libro. Lavoro molto e mi piace dar vita a queste cose.

Qual è la stata l’opportunità di diventare un radiocronista? Hai ricordi da bambino mentre ascoltavi partite alla radio?

Da bambino ascoltavo, di riflesso, quello che ascoltava il mio papà, grande appassionato di calcio e tifoso del Boca, lì nella mia natale Mar del Plata. Con la piccola radio Spika, uscivo nel patio e ascoltavo le partite, soprattutto a Bernardino Veiga, il primo relator a seguire tutte le partite di un club. Ho ancora quella musichetta nell’orecchio. Dopo la mia frustrazione come calciatore, negli anni ci fu la possibilità di collaborare con l’unica radio che c’era da quelle parti, e iniziai a frequentare gli stadi della Liga Marplatense e a coprire le partite, senza andare in onda. Dovevo vedere la partita, chiamare la radio, passare il risultato a una persona che prendeva nota e lo girava agli studi centrali. Questa cosa durò un paio di anni. Un giorno, dopo questa lunga attività, il corpo mi chiedeva qualcosa di diverso: iniziai ad andare con un registratore e raccontavo le partite a me stesso, chiuso in una cabina. Quanto tornavo a casa la sera, le ascoltavo e, su di un quaderno, prendevo nota di ciò che mi sembrava ben fatto e, soprattutto, ciò che dovevo correggere. Un giorno poi mi diedero l’occasione di raccontare una partita e da allora non ho mai smesso.

Come scegli il linguaggio per esprimerti in ogni trasmissione?

Quando ho iniziato a fare radiocronache fui costretto ad affrontare una difficoltà enorme. I miei studi si erano conclusi alla scuola primaria, non ero potuto andare oltre. Quelle poche parole che mi erano entrate dentro, non erano sufficienti per poter fare la cronaca di una partita di fútbol alla radio perché lì hai bisogno di maneggiare bene il lessico. Capii che dovevo leggere tanto. Mi piaceva. Con il tempo ho scoperto che usavo le parole di quegli scrittori, di quelle scrittrici di cui avevo consumato voracemente i libri. Le avevo progressivamente incorporate e questo processo aveva migliorato il mio linguaggio. Ho sempre potuto fare affidamento su questo vantaggio extra: mi piace scrivere e so gestire questa cosa. Tutto ciò mi ha dato un grande aiuto per affrontare una professione tanto importante come questa. Da bambino andavo con mia madre nelle piazze dove c’erano biblioteche pubbliche. Il libro che ha segnato la mia infanzia è stato Sandokan, la saga dei libri di Emilio Salgari sui pirati. Quando ho iniziato a leggere, lo facevo in modo molto confuso, leggevo Borges o prendevo un romanzo d’amore. Ho incontrato la letteratura che più mi si addiceva, quella latinoamericana del boom degli anni ’70: García Márquez, Cortázar.

Cos’è che più ti rapisce del mondo del calcio, considerando che hai raccontato più di uno sport? Cosa ti spinge a seguirlo ancora?

Ho avuto la fortuna di raccontare tanto basket e tanta boxe. Un narratore è capace di raccontare qualunque cosa. Ho lavorato in radio come inviato e ho raccontato sparatorie, incendi, l’arrivo del presidente Alfonsín in quei primi momenti di vita democratica per l’Argentina nella mia città, raccontando dalla sua discesa dall’aereo fino all’arrivo in hotel. Come si imparano a gestire parole e ritmo… Improvvisamente si scopre di avere la capacità per potersi dedicare a nuove avventure, per questo ci sono tanti giornalisti che hanno cominciato con lo sport e sono poi passati a fare giornalismo in termini più generali. La mia visione è questa: siamo narratori di storie e lo facciamo con naturalezza. Utilizziamo molte parole in quell’ora di attesa, nei 90 minuti e nel post-partita. Il fútbol ha in sé molte cose della vita quotidiana, della società. Tutto d’un tratto, è un dramma, ma poi passa ad essere improvvisamente una commedia, fatta di intrecci, inizia ad avere un certo humor e costantemente va verso l’alto per poi ridiscendere, cambiando ancora. È un grande spettacolo che va oltre il gioco. Ciò che è aleatorio, ciò che sta intorno ad esso, il panino con la salsiccia (il choripán), le grida della folla: è un ambiente che mi seduce profondamente.

Secondo Juan Sasturain non c’è nulla nella vita che non sia un racconto. Cosa pensi di questa frase?

Sicuramente c’è molto di vero in quello che dice. Ci succedono cose che noi stessi raccontiamo, o che altri ci raccontano, e tutto questo non smette di essere un racconto senza fine, una storia.

Cosa ricordi delle prime partite e del Mondiale del 1982 quando eravamo in piena dittatura?

Sono stati anni molto traumatici, macchiati di sangue, macabri e dolorosi. A Mar Del Plata ho perso amici con cui mi incontravo quotidianamente nei caffè… un giorno vidi una sedia vuota. Il padrone mi disse di non andare più, che stavano succedendo cose mai viste, che c’erano ragazzi fatti fuori dai militari. Trovai alcune risposte in persone più grandi, militanti, che mi raccontarono ciò che stava succedendo secondo il loro punto di vista. Nel 1981 la situazione era già differente, ero un po’ più tranquillo. Io vivevo intensamente perché lavoravo in un’azienda metallurgica e iniziavo ad andare al sindacato per studiare dattilografia. Avevo un lavoretto e dovevo scrivere piccoli articoli, una cosa utile. Sentii un paio di notti, quando prendevo l’autobus per rincasare, che una Falcon verde ci seguiva. Scendevo, la Falcon si fermava all’angolo e subito dopo andava via. Tutti quelli che frequentavano il sindacato erano in allerta, nel mio caso, anche facendo una cosa tanto innocente come imparare a scrivere a macchina. Dovevi fare grandissima attenzione. In quegli stessi anni, entrai in un giornale di Mar del Plata e, gestendo alcune informazioni, iniziai ad occuparmi di ciò che il Paese scoprì anni dopo. La gran quantità di desaparecidos e tutti gli orrori compiuti da quella gente là.

In epoche di isolamento e pandemia, senti la radio come un qualcosa di vicino alle persone e che il racconto sportivo possa far loro compagnia?

Sì, ma non solo nelle trasmissioni sportive. La radio si è trasformata in un veicolo di comunicazione per milioni di persone che sono isolate, sole o che semplicemente non sanno cosa fare. Oltre gli errori che può commettere, la radio è la grande compagna delle persone. Non ha perso questo spazio tra i piaceri popolari, nonostante l’avanzare della Tv e tutta la tecnologia dell’epoca contemporanea, legata alle reti sociali e chi più ne ha più ne metta. Continua ad essere affidabile ed è un elemento di compagnia. Non occupa spazio, non dà fastidio. Sta sul tavolino della luce, sopra il frigorifero o la porti nelle tue orecchie mentre corri o sei al lavoro. L’hanno data per morta tante volte ed invece è viva e a dire la sua. È un bene di prima necessità.

Parliamo delle notizie che si diffondono erroneamente o falsamente, come credi che il giornalismo si sia involuto o evoluto in questi quarant’anni?

La nostra professione si è spettacolarizzata ed ha perso credibilità. Soprattutto il giornalismo sportivo. In un fútbol come il nostro, così arrivista, imbroglione, pieno di persone che si lamentano, c’è un giornalismo radiolandia a cui rende più dire che il numero 4 frequenta una ex concorrente del Grande Fratello piuttosto che analizzare che quel numero 4 si muove bene quando attacca o retrocede. Alla tv, quasi non si parla di fútbol; si grida di fútbol. Il calcio lo amo, ma non mi piace discutere di questo. Preferisco raccontarlo.

Quali aspetti ha modificato la tecnologia e l’immediatezza dell’informazione nella fase di preparazione di una radiocronaca?

È meraviglioso quello che ci sta succedendo. Mai sottoscriverò quella teoria che ci dice che tutto ciò che appartiene al passato è stato migliore. Prima, per trovare dati su una città dove andavo a raccontare una partita di calcio dovevo andare nelle biblioteche pubbliche o consultare enciclopedie. Oggi, sei a un click dall’informazione e il lavoro viene favorito, ma ci vuole grande attenzione perché ci sono notizie inesatte e false. Mi piace lavorare su queste cose. Se vado in un altro Paese per una partita di calcio, voglio conoscere la storia di quella città, dello stadio dove si va a giocare, e la tecnologia ci aiuta tanto. In un’altra epoca, se non trovavamo dati esatti, dovevamo chiamare al telefono qualche collega in qualche modo legato al club di cui dovevamo raccontare la partita affinché ci passasse qualche informazione. È più semplice… Devi fare attenzione perché c’è una gran quantità di notizie che sono roba marcia. Ma con un pizzico di esperienza, consultando diverse fonti, alla fine le notizie esatte le capisci.

Sono quarant’anni che fai il radiocronista, che cosa hai aggiunto progressivamente al tuo racconto e, soprattutto, quali cambi hai visto nel calcio di oggi in relazione con ciò che è accaduto nelle decadi precedenti?

Bueno, c’è una gran cambiamento che in Argentina non è ancora arrivato, ma sta arrivando ed è il VAR. Io lo detesto per il modo in cui lo si sta usando. Non ho ancora immaginato di annunciare un gol e, lì per lì, abortirlo perché l’arbitro segnala che andrà a consultare il monitor. Questo è un viaggio senza ritorno che sono costretto a fare perché non posso tornare a urlare quel gol se, nel giro di qualche minuto, verificano che, effettivamente, è un gol regolare e viene indicato il centro del campo. Quindi ho preparato una strategia: quando arriverà il Var qui in Argentina ho deciso che continuerò a raccontare il gol, ponendo enfasi sul fatto che l’arbitro va a consultare il Var, affinché rimanga testimonianza di questa registrazione storica del gol. Entro 20 o 30 anni, se qualcuno cerca quel gol per raccontarlo in caso di un anniversario quel gol non c’è o è annullato. È un grido che è iniziato ed è terminato subito e poi non si è completato. Preferisco riavvolgere il nastro e dire che l’arbitro lo ha annullato piuttosto che mangiarmi il gol, come si dice volgarmente.

Cosa pensi del fatto che in questa epoca il giornalismo sia ogni giorno una tentazione di lavoro sempre più forte per i giovani?

Io non ho vissuto la meravigliosa epoca che state vivendo voi adesso. Ai miei tempi, non c’erano scuole di comunicazione. C’era solo la Sociedad Argentina de Locutores (SAL). Sono radiocronista, giornalista, ma non sono uno speaker e mi dispiace profondamente non aver vissuto questa fase perché, ne sono convinto, una laurea in comunicazione mi avrebbe aiutato enormemente per incontrare tante cose che, in realtà, hanno più a che vedere con la teoria che con la pratica, e che mi avrebbero aiutato tanto a migliorare il mio lavoro. Il mio approccio è stato molto artigianale e ho dovuto moltiplicare lo sforzo per potermi sostenere in questa attività. Oggi, in tutti i lavori, in tutte le professioni, è molto difficile arrivare partendo dal giornalismo. Ci sono alcune cose che hanno a che vedere con la tecnologia e questa è una delle possibilità, ma accedere ad una radio, un giornale o un canale Tv è abbastanza complesso perché mancano le fonti di lavoro. Lì per lì, mentre stai studiando comunicazione non te ne rendi conto, ma quando stai per laurearti o ti sei laureato… Conosco tanti ragazzi che alla fine hanno fatto lavori che non c’entravano nulla con il loro percorso di studi.

In alcuni casi, il lavoro è diventato più flessibile…

Sì certo, ma allo stesso tempo c’è lo stagista. È facile per le imprese fare un contratto a degli stagisti, visto che li pagano due pesos, li contrattualizzano per tre mesi, non rinnovano i contratti e nuovi stagisti arrivano per altri tre mesi. Così nasce una catena senza fine su cui l’impresa guadagna e, per voi, non c’è nulla di buono perché sei stato tre mesi in prova e di certo quello non è stato un tempo sufficiente. Questo non è lavoro.

Credi che c’è posto per nuove “bandiere” nel racconto sportivo?

Siamo sempre gli stessi, e alcuni anche invecchiati. Oggi, non vedo un gran rinnovamento. Sto vivendo nella zona interna di Santa Fe e non ho notato delle novità. Siamo quelli che siamo e non compaiono nuovi radiocronisti. Ho l’impressione che le nuovi generazioni non pensino tanto alla radio, piuttosto alla televisione o al fatto di mettere una faccia davanti ad una camera. A pensarci bene, è più trascendente e importante che fare un lavoro quasi anonimo come quello radiofonico. Del narratore radiofonico la faccia è sconosciuta. Invece, metti la faccia in TV per cinque secondi e sei un dio. È un concetto equivoco, ma così si ragiona.

Come hai avuto la prima opportunità di fare la tua prima radiocronaca? 

Io non avevo detto niente, ma alla radio sapevano che andavo clandestinamente agli stadi di Mar del Plata con un registratore a raccontare le partite per me. Un giorno mi diedero la possibilità di raccontare un incontro del campionato e, da quel momento, non mi sono più fermato. Il mio lavoro piacque e fui messo sotto contratto per proseguire quell’attività. Questo fu il tanto sognato esordio, che non rientrava nei miei progetti perché nella mia testa non c’era l’idea di essere un giornalista o un radiocronista. La mia testa era quella di diventare un calciatore, ma quel calciatore ebbe una cocente frustrazione da giovanissimo. 

Ci dai una definizione di racconto? 

Raccontare è leggere a voce alta ciò che i giocatori scrivono con i piedi. 

Quanta importanza hai dato e continui a dare alla gestione della voce?

Personalmente, mi sono trascurato abbastanza. Sono un fumatore e un nottambulo. Non ho prestato la giusta attenzione alla mia gola e, generosamente, è ancora con me e sono scaramantico. Ci sono cose in cui tanto quelli che lavorano in radio come quelli che cantano devono fare come la fonoaudiologia. È una forma di protezione della voce, consiste nel non sollecitare eccessivamente e prematuramente la gola, imparare a respirare e imparare a gestire la voce. In un racconto sportivo, usi male la voce e a volte abbiamo dolore in gola quando gridiamo un gol. Io non l’ho fatto, ma lo raccomando a tutti coloro che lavorano con la voce. 

Hai ancora qualche sogno nel cassetto?

Ho raccontato cinque campionati mondiali di calcio e mi sarebbe piaciuto raccontare una vittoria della Selección argentina, ma non ci sono riuscito. Ci sono andato molto vicino al mondiale brasiliano del 2014 ed è un debito aperto che ho con me stesso. 

Come si è evoluto il racconto in questi ultimi decenni? 

Un tempo, i radiocronisti gridavano il gol in modo secco e una volta soltanto. In ogni caso, successivamente facevano una descrizione della giocata. Noi radiocronisti di oggi gridiamo tanto il gol e allunghiamo il grido che, spesso, l’ascoltatore si sta chiedendo chi sia il marcatore. Io sono uno di quelli che il gol lo grida abbastanza, ma la prima cosa che dico è il nome del marcatore e poi urlo per far capire immediatamente all’ascoltatore magari distratto, quando ascolta il grido del gol ed inizia a correre verso la radio ansioso di capire, quale squadra e quale calciatore abbiano segnato. Queste cose sono cambiate. Anche il calcio è cambiato, i ritmi delle partite e gli scenari sono altri. C’è la tecnologia, che prima non c’era. Non so se ci siamo evoluti, in alcuni casi ci siamo involuti, ma allo stesso tempo, nonostante tutto, io sono nel pieno di questa epoca.

Dove c’è stata una involuzione, a tuo giudizio?

Nell’uso della lingua, per esempio. Abbiamo una lingua ricchissima, meravigliosa e utilizzata malissimo. Sono in tanti a lavorare da anni con questo medium e purtroppo usano in modo pessimo i verbi, i tempi, le frasi. Altri pensano di usare metafore false, forzate e ricercate che mal si accordano con quello che vogliono dire. Prima, questo non succedeva. C’era una certa educazione nel lessico di chi lavorava nel racconto sportivo e alla radio, con gli anni, molto di tutto ciò si è via via perso. Una cosa è fare una trasmissione piacevole, divertente, colloquiale e un’altra è dire cattive parole. Ci sono radiocronisti che lo fanno e pensano che, da quella posizione, intercettano un certo target di ascoltatori. 

Come vedi il coinvolgimento delle donne in un ambito che, storicamente, è sempre stato dominato dagli uomini? 

Mi pare una cosa magnifica. Quanto sta succedendo con la donna e con l’emancipazione che ha raggiunto dopo una vita di frustrazione è meraviglioso. Puntualmente, nel mondo del calcio ci sono colleghe che lavorano molto bene, sono molto preparate, sanno leggere bene il mondo del fútbol ed io sono molto felice di tutto ciò. Sono sempre stato circondato da colleghe nei programmi sportivi di radio e questa cosa voglio portarla avanti nella città di Santa Fe, dove sto attualmente lavorando.

Avevi detto che preparavi con un buon margine di tempo ogni partita e che non notavi un gran rinnovamento fra i radiocronisti. Quando a un giornalista tocca raccontare una partita al giorno, gli manca un po’ di preparazione ma riesce a dare più improvvisazione al racconto?

È probabile. A un uomo come me che lavora tanto ad ogni trasmissione, non ce la farebbe a tenere quel ritmo. Una partita al giorno è una pazzia. A me è successo, ho raccontato sette partite in sette giorni con tanto di viaggi all’estero lavorando alla radio, ma era un altro momento e poi ero più giovane. Oggi non lo farei. Anche se si potrebbe per via di quel un livello di saturazione raggiunto nell’orecchio dell’ascoltatore.

Le cose belle si fanno sempre un po’ attendere … Come un gol al novantesimo

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