di Luis Morales – Revista Túnel (Uruguay) – Gennaio-Febbraio 2021, edizione n. 38

«La lingua è il riflesso della cultura. Non il contrario»

Nelle ultime settimane del 2020, in risposta alla sanzione che la Football Association (FA) ha comminato a Edinson Cavani, la linguista uruguaiana Yliana Rodríguez ha inviato una lettera aperta alla federazione del calcio inglese in cui, attraverso argomenti linguistici e culturali, cercava di dimostrare che la situazione richiedeva un’analisi maggiormente approfondita. In questa intervista con Túnel, la linguista, mantenendo come sfondo quel contesto, riflette sui fenomeni di natura culturale e linguistica che spiegano i diversi significati che vengono socialmente attribuiti alle parole.

Yliana, qual è il tuo campo di studi?

Mi sono laureata in Linguistica e ho un master in Scienze Umane. La Facoltà di Scienze Umane dell’Università della Repubblica ha un master in Scienze Umane e, al suo interno, vari indirizzi. Io ho scelto l’opzione “Linguaggio e Società”, una specie di master in Sociolinguistica; in realtà si tratta di un campo di indagine un po’ più ampio perché va oltre la sociolinguistica. Adesso sto facendo un dottorato in Linguistica in cotutela tra l’Università di Leida (Paesi Bassi), in cui sono ricercatrice, e l’Università della Repubblica, dove sono dottoranda. Ancora non ho discusso la mia tesi, che riguarda il contatto tra l’inglese e lo spagnolo nelle Isole Malvinas. Ciò che mi interessa maggiormente e a cui mi sono dedicata con più attenzione è lo studio del contatto tra le lingue. E all’interno di questa relazione, al tema dei prestiti linguistici, un’area interna alla lessicologia. 

Ti occupi dei motivi per i quali, in caso di dubbi, corriamo a consultare il dizionario, cerchiamo la parola e diciamo: «Vuol dire questo».

Può accadere che in un determinato momento una parola abbia significato una cosa, e che oggi non lo voglia più dire. Con i dizionari digitali oggi a disposizione, molto facili da aggiornare, non dovrebbe più accadere una cosa del genere, ma accade ugualmente. Può succedere, ad esempio, che la Real Academia Española faccia sua una parola, che questa debba passare una serie di prove, e che a un certo punto, risolto il caso, quella parola non sia più di uso comune. Ciò che mi interessa è la lessicologia, il tema dei prestiti linguistici e il contatto tra le lingue come uno dei fattori che favoriscono lo scambio linguistico. E il caso di Cavani mi interessa perché riguarda una parola che non smette di essere un prestito. Le persone, in realtà, non la percepiscono come tale. Ma appartiene alla nostra cultura perché, se scaviamo e andiamo all’osso della etimologia della parola, può risultarci interessante che la parola negro sia di origine latina e, in qualche modo, appartiene più ai parlanti di lingue romanze che ai parlanti di lingua inglese. Anche se mi si potrebbe obiettare dicendo che tutte le parole sono dei prestiti e potremmo quindi analizzarla senza dubbio come tale, come una parola internazionale. È una parola che potremmo definire un cognado, una parola imparentata morfologicamente con molte lingue. Un cognado è una parola che mantiene forme e significati simili in diversi sistemi. Attualmente, altre parole che potrebbero rientrare in questo caso sono shampoo, fashion, mouse, cool, Google. Sono parole che se pronunciate in qualsiasi parte del globo, tutto il mondo bene o male le intende. Cosa molto più probabile nel caso io dicessi una parola che si riferisce a un oggetto, laptop per esempio, apparirà più chiaro che con parole come negro. Ma, per capirci, questa è una parola che ha reso molto in differenti lingue, in differenti culture. E vista la natura differente di ogni cultura, ognuna darà un tono differente a questa parola. A volte accade che, all’interno della nostra stessa società, qualcuno utilizzi una parola in una forma differente perché appartenente a un’altra generazione. Ad esempio, mio padre può usare una parola in una forma diversa da me. Recentemente ho scritto una mail al mio direttore di tesi in Olanda dicendo che le sue critiche erano state “demolitrici” – cosa che ho scritto in inglese, che non è neanche la sua lingua madre, in quanto lui è tedesco – e successivamente mi ha chiesto scusa, perché mi ha detto che non era nelle sue intenzioni buttarmi giù. Anche perché, nel Nord Europa, è molto presente il tema del politicamente corretto, del non ferire l’altro. In realtà io gli avevo parlato nel senso che i suoi argomenti mi erano sembrati buoni, decisi e chiari. Ma può accadere all’interno dello stesso sistema, all’interno della stessa varietà di lingua, che non intendiamo una parola allo stesso modo; ad esempio, ciò che mio padre intende per “riposare” (dormire) e ciò che i miei alunni di venti anni intendono con la stessa parola (prendere in giro). È normale quindi che questa cosa possa accadere tra due culture tanto diverse, come la nostra e quella britannica! Riassumendo, se giustamente si è parlato lungamente della ignoranza della FA, io non sarei tanto sicura del fatto che loro ignorino l’uso che noi facciamo della parola, perché non siamo gli unici che in America Latina usano negro o negrito con il valore che intendiamo noi uruguaiani. E questo accade in diverse aree. Credo che abbia più a che vedere con il fatto che loro sono un poco rigidi con le regole e dicono: «Qui quella parola non si usa. Stop».

Perché accade questo? 

Credo che abbia a che vedere con la loro storia, una storia molto differente dalla nostra, e per questo stesso motivo censurano la parola. Non hanno sottigliezza perché sono un impero e analizzano le cose caso per caso: «Ah, no! Questo Cavani l’ha utilizzata così perché è lo spagnolo d’Uruguay…». Quindi, tralasciando il fatto che non condivido la sanzione e mi sembra un gran equivoco, non attribuirei questa decisione all’ignoranza della FA. A mio avviso, il loro meccanismo funziona in questo modo: «Questo qui non si dice e punto». Ha a che vedere con questioni culturali. Con lo stesso spirito per il quale noi possiamo usare la parola negrito con affetto, loro ne hanno fatto un divieto. Questo non mi impedisce di essere in disaccordo però. Soprattutto per il tipo di interazione in cui è stato fatto l’uso della parola. Perché non stava parlando in inglese, non stava parlando sul campo di gioco, né all’interno del suo club. Stava parlando in questo mondo illusorio che sono le reti sociali e stava parlando con un altro uruguaiano. Detto questo, mi pare che in questo caso si sia esagerato, perché non siamo né nell’ambito calcistico né in quello professionale, e neanche nel contesto britannico. Per questo il caso mi sembra ancora più grave. 

Le reti social sono uno spazio in cui le interazioni non sono identiche a come quelle che si hanno in un’oralità cara a cara, faccia a faccia?

Ovviamente sono due cose diverse. Attualmente nell’ambito della linguistica si sta facendo molto riferimento alle interazioni nei social network; allo stesso tempo prima della pandemia si stava facendo grande attenzione al data mining, alle “minieri di dati”. Questa espressione deriva dal fatto che si possono ottenere infinità di dati dai commenti che si pubblicano su Facebook o Twitter, ad esempio. Ci sono studi che hanno dimostrato che le interazioni sui social assomigliano moltissimo alle interazioni di tipo orale. Cosa che serve a giustificarne l’utilizzo piuttosto che fare un lavoro sul campo e sobbarcarsi il duro lavoro che tutto ciò implicherebbe. Detto questo, è molto simile allo scambio che può esserci in un faccia a faccia, ma non è la stessa cosa. Non possiamo negarlo. E allo stesso tempo è certo che è un fatto che non è stato legiferato neppure per la pubblicità o per il telelavoro. A mio avviso è come un nuovo pianeta in cui stiamo vivendo ed in cui non c’è polizia, non si pagano le tasse e praticamente non c’è controllo su nulla. Ovviamente alcune regole ci sono, prova ne è la chiusura dell’account Twitter di Trump. Ma ciò che è certo che se faccio un acquisto su Facebook non pago tasse, tra le altre cose. Può anche succedere che se parlo con qualcuno su Facebook, il mio capo non deve dirmi come devo rivolgermi a un amico. Questa è la mia interpretazione di qualcosa che non è regolamentato nei termini più assoluti. È come se esistesse un vuoto linguistico e legale.

Fino ad adesso abbiamo visto cosa è successo rispetto a questo fatto che ha visto protagonisti un inglese e un uruguaiano rispetto alla interpretazione di una parola, ma anche all’interno della nostra società possono esserci diverse considerazioni del caso. Alcuni gruppi, ad esempio rappresentanti di Mundo Afro [storica associazione del movimento afrouruguayano con sede a Montevideo, n.d.T.]. Anche questa cosa si può spiegare da un punto di vista culturale e linguistico, non è così?

Ho seguito la cosa. La comunità nera dice che i bianchi stanno indicando il modo con cui vanno chiamati i neri o delle modalità che potremmo definire di stile. Prima di tutto, a mio giudizio, è molto compiacente da parte dei britannici proibire la parola negro. Se a qualcuno dà fastidio la cosa, che parlino i neri. Ma è come se avessero commesso così tanti errori nella loro storia che adesso decidano di non usare più quella parola. È un fatto positivo che sia proprio la comunità di appartenenza a dire se preferisce o meno l’uso di questo vocabolo per riferirsi a sé stessa. Ma siamo di fronte allo stesso problema che abbiamo avuto quando fu pubblicato il dizionario di spagnolo dell’Uruguay e ci furono lamentele da più parti perché vi era l’espressione “lavorare come un negro”, e dovette addirittura prendere posizione l’allora presidente della Academia Nacional de Letras, Adolfo Elizaincín, a spiegare che non si possono togliere né mettere delle espressioni perché un gruppo le considera offensive. Un tema è l’origine dell’espressione. Un esempio. Quando dico: «Sai, ieri ho camminato come una nana [ho camminato tantissimo, n.d.T.]», non sto pensando che i nani hanno le gambe corte e quando camminano fanno più passi di me perché io ho il passo più lungo, e di conseguenza il nano si stanca di più perché è costretto a fare uno sforzo maggiore… Non sto di certo pensando a tutto questo che è probabilmente l’origine dell’espressione! O se qualcuno dice: «Mio Dio, che caldo che fa», non penso che quella persona è cattolica o ebrea praticante. Non penso nulla di tutto ciò perché, è bene ribadirlo, con il tempo le parole cambiano il loro significato o cambia l’uso che se ne fa. Tutto cambia continuamente, e questo è un elemento che le persone dimenticano e a volte si rivolgono al dizionario, come quando la maestra ci diceva: «Avanti, andiamo a vedere sul dizionario il significato di questa parola». Sono però allo stesso tempo cosciente che ci sono persone della comunità nera o afro – il tema di come chiamarla è altrettanto delicatissimo – che ha la propria opinione sul tema. Il mio ragionamento parte dal tema che tutta la comunità ha il pieno diritto a autodefinirsi. Ciononostante, è sempre accaduto che altre comunità definiscano queste comunità, chiamandole “barbari” o “sudacas”, per esempio. Questo è il fatto più normale del mondo. Ciò che è confermato sul fronte della linguistica è che la lingua cambia dietro la cultura, corre verso la cultura partendo da una posizione arretrata. La lingua è il riflesso della cultura, non il contrario. Se smettessimo di usare la parola negro il razzismo non scomparirà. Le cose che devono cambiare sono molto più complesse.

Bisogna comprendere i fenomeni che sono più nascosti per poter cambiare questa realtà.

Bisogna prendere di petto la cosa e dire: «Signori, la questione della razza è un’invenzione». Il concetto di razza è stato elaborato in un determinato luogo e in un determinato momento storico confini precisi. Però non si parla mai del fatto che questa sia una creazione, non si discute di questo concetto alla Tv o alla radio. Pertanto, mi sembra che le cose vadano in tutt’altra direzione. E la FA ha chiaro il proprio obiettivo: frenare il razzismo. E credo che la maggior parte degli esseri umani condivida il fatto che il razzismo non sia il benvenuto, neanche su un campo di calcio, dove si sostiene tutto il contrario. Ma mi sembra che la cosa si materializzi non perché la parola sia pronunciata o meno. La cosa da fare, lo ripeto, è mettersi nei loro panni [degli inglesi, N.d.T]. E io provo a comprenderli attraverso la loro storia messa in relazione a questa parola. Anche se in questo caso, si stanno mostrando profondamente ingiusti.

Credo che l’aspetto più interessante sia comprendere che dietro c’è un processo umano, culturale, legato all’uso del linguaggio.

Cosa normalissima, che è stata a lungo studiata, che è sempre accaduta e continuerà a farlo. Mi sembra che questa sia una meravigliosa opportunità per rifletterci ancora. Perché uno sport tanto popolare come il calcio, con un calciatore tanto amato qui da noi e nel mondo intero, disegna lo scenario perfetto per discutere e per risvegliare la coscienza linguistica. Per invitare la gente a parlare e riflettere sul linguaggio. Anche se tutto il mondo riflette sul linguaggio, sul fatto se si parla bene o male, non abbiamo molte opportunità per fare metalinguistica, per parlare del linguaggio con qualche strumento in più. Ad esempio, analizzando dei miti, per capire che cambiando il linguaggio non cambieremo la società; che non c’è nessuno che parla male, se non che la gente adatta il suo registro rispetto all’interlocutore; che non esistono le male e le buone parole… e, ovviamente, tutto questo è un’opportunità affinché la gente sappia che esiste una scienza che si occupa di ciò, che ci sono i linguisti da consultare quando nascono queste discussioni. Perché ci sono molte decisioni che si prendono in ambito politico senza consultare esperti… e molte volte è così che nascono gli errori.

Qualcosa di simile è accaduto rispetto all’uso del linguaggio inclusivo.

In Spagna, in alcuni uffici pubblici – e anche in alcune università! – ci sono manuali di stile inclusivo. Che accada in un ufficio pubblico, non mi sorprende, ma che ci siano difensori del linguaggio inclusivo nelle università mi fa male, perché nessuno ha interpellato un linguista che potesse spiegare che in questo modo le cose non possono andare. Se vogliono usarlo come un opuscolo, se vogliono mandare una mail in cui utilizzano la parola “todes” [per rivolgersi a “tutti” invece di “todos” e “todas”, n.d.T.] o ad esempio la chiocciola per riferirsi ai diversi generi come una specie di firma per far capire che sono favorevoli a quella idea, mi sta bene; ma che non pretendano che scrivendo “hijes” [per dire “figli” invece di “hijos” e “hijas”, n.d.T.] si possa cambiare la società.

E neanche che censurino chi usa le forme tradizionali riconosciute dalla grammatica!

Qualche tempo fa, parlando in termini storici, il mio compagno disse: «Quando l’uomo…», e qualcuno aggiunse: «E la donna». Ma quando pronunciò quelle parole nessuno stava pensando all’uomo con il pene, pensavano nell’essere umano. Tuttavia, c’è un altro elemento che si chiama «principio di economia linguistica, che permette che sia molto più facile dire «l’uomo» piuttosto che «l’essere umano» o «l’uomo e la donna». Quindi dovremmo pensare: diciamo «l’uomo» perché c’è machismo? E sì, molto probabilmente è così. Ma siamo sicuri che la chiudiamo con il problema del machismo non usando più quella espressione? Mi sembra molto difficile. Perché credo che la maggior parte dei problemi di questo mondo si risolvono con l’educazione.

Molti di coloro che usano il linguaggio inclusivo iniziano un testo utilizzando «tutti e tutte» e poi dimenticano che, ad esempio, tutti gli aggettivi dovranno poi coincidere con genere e numero con il soggetto della frase, quindi, per la volontà di scrivere secondo le regole del linguaggio inclusivo, si ritrovano a commettere errori grammaticali.

È interessante ragionare su questi aspetti. Perché questo caso dimostra che questo tipo di atteggiamento viaggia controcorrente rispetto al funzionamento di una lingua. Non possiamo applicare degli artifici deliberatamente. La lingua cambia, ma lo fa da sola.

Inoltre, in questo modo il discorso diventa macchinoso, artificioso.

È difficile mantenere la coerenza. In alcuni casi, nella scrittura ci si riesce, ma nella oralità credo sia più complicato. A questa cosa bisogna essere allenati, come un attore. È una cosa che non esiste nel linguaggio naturale. Quindi, questo fatto dimostra che è un artificio. E la lingua non cambia così, i cambi avvengono in maniera inconscia. Per di più, bisogna aggiungere che lo spagnolo è già appesantito dalle categorie del numero, del genere, eppure si vuole inserire questo frazionamento che non è necessario. Ha ragione Adolfo Elizaincín: la lingua spagnola è già inclusiva, nel genere maschile, che non ha nulla a che vedere con il genere biologico, viene incluso quello femminile.

Cambiando ciò che c’è da cambiare, tanto rispetto al linguaggio inclusivo come in quello di Cavani sono presenti le stesse questioni di fondo.

È chiedere alla lingua di fare miracoli. È chiedere alla lingua di compiere un atto divino.

IL FATTODomenica 29 novembre 2020, dopo la vittoria del Manchester United contro il Southampton per 3-2, match in cui Edinson Cavani ha realizzato una doppietta, il calciatore uruguaiano ha risposto a una storia Instagram di un amico con il messaggio: Gracias negrito». Nei giorni successivi, la FA ha considerato questa pubblicazione «offensiva e/o impropria e/o inadeguata e/o screditante il gioco [del calcio, n.d.T]» e che il commento costituiva una «violazione aggravata delle regole» perché includeva un riferimento a un «colore e/o razza o origine etnica». Il 28 dicembre 2020, la linguista uruguaiana Yliana Rodríguez ha inviato una lettera aperta alla FA in cui, attraverso argomenti linguistici e culturali, cercava di dimostrare che la situazione meritava un’analisi più approfondita. La reazione della professoressa dell’Università della Repubblica non è stata l’unica; sono state diverse le istituzioni, tanto dell’Uruguay quanto di altri Paesi, che hanno discusso sulla decisione della FA. In conclusione, nei primi giorni del gennaio 2021, dopo che il caso è stato analizzato da un gruppo di studiosi della FA, Cavani è stato assolto dall’accusa di aver tenuto un comportamento razzista. Tuttavia, la FA ha criticato il Manchester United per non aver dato assistenza all’asso uruguaiano «in modo tale da tenere meglio in considerazione le differenze culturali che avrebbero potuto prodursi nel momento in cui un giocatore straniero pubblica informazioni su di una piattaforma social». La sanzione economica e la squalifica di tre match decretate in un primo momento sono rimaste in piedi.

Le cose belle si fanno sempre un po’ attendere … Come un gol al novantesimo

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