di Matteo Albanese (articolo originale) 

Nel 2016, Jesper Johansson era un portiere di discreto successo: la sua carriera prometteva bene ed era riserva dei convocati della Nazionale olimpica svedese alle Olimpiadi di Rio. Poi, di colpo, il crollo: ansia, mancanza di sonno, il rifugio nell’alcool, stress e depressione. Oggi ha superato i suoi demoni e dedica la sua vita a sensibilizzare il mondo del calcio sul tabù della salute mentale.

In una recente chiacchierata tra il popolare giornalista svedese Marcus Birro e Jesper Johansson, il primo sviluppa una splendida metafora. Esordisce parlando dell’Italia, di Venezia e di come il ponte di Rialto sia diventato uno dei luoghi prediletti in cui attaccare il proprio lucchetto d’amore – nel solo marzo 2019 ne vennero rimossi trecento – così da documentare il proprio sentimento a strapiombo sulle acque del Canal Grande. Una romantica consuetudine, peraltro replicata altrove: sul Ponte Vecchio a Firenze, sulle pareti della casa di Giulietta a Verona e, ben più celebre, alle ringhiere di Ponte Milvio, a Roma. A Stoccolma non per questo scopo esiste il Västerbron, “Ponte dell’Ovest”, creato negli anni Trenta affinché collegasse Kungsholmen con Södermalm, quartiere meridionale della capitale svedese che gli appassionati di calcio forse conoscono come il distretto che ospita l’Hammarby IF, di cui Ibrahimovic è oggi co-proprietario.

Il punto è però che, ben presto, Västerbron affiancò alla sua vena sentimentale uno strano paradosso, per cui contemporaneamente fu il ponte dei lucchetti d’amore e il luogo scelto da alcuni nel quale togliersi la vita. Sintomo di un’epoca complessa, che accentua aspetti e palesa delle mancanze. Amore e morte. Allo stesso tempo. Benessere esteriore e smarrimento interiore. La depressione del resto è un male oscuro: non sempre si palesa al di fuori. Nel 2016, premio di una carriera promettente, Jesper Johansson era tra le riserve dei convocati della Nazionale svedese che avrebbe partecipato alle Olimpiadi di Rio. L’estate precedente infatti, a Praga, il c.t. Håkan Ericson aveva mirabilmente saputo guidare la selezione U21 gialloblù alla vittoria dell’Europeo di categoria. Il Paese era in festa per il primo titolo europeo e i tanti talenti in rosa: Lindelöf del Benfica, Hiljemark del PSV, Guidetti allora al Celtic e un 21enne Quaison, del Palermo.

Alle Olimpiadi del 2016 la Svezia però fallì: ultima nel Gruppo B con un solo pareggio in tre partite, ottenuto all’esordio contro la Colombia dell’ex meteora parmense Pabón, e due sconfitte con Nigeria e Giappone. Jesper Johansson non c’era, perché come detto era una riserva. Era nato e cresciuto al Mjällby, la squadra più piccola (per numero di abitanti della città) ad aver mai partecipato alla Allsvenskan, la Serie A svedese. Il suo esordio però Johansson lo fece in Superettan, la Serie B, un nebuloso pomeriggio del maggio 2015. Avrebbe giocato altre sei partite in stagione. L’anno dopo, al GAIS Göteborg, una presenza in Superettan e due in Coppa nazionale. Tornato a Mjällby, nel frattempo retrocesso in terza serie, aveva trovato un posto da titolare: 25 gare giocate nel 2017, 30 l’anno dopo. Poi, il crollo.

Il 21 aprile 2019, Jesper Johansson ha giocato la sua ultima partita in carriera, una sconfitta in trasferta per 2-1. A 24 anni – divorato da una situazione insostenibile e allo stesso tempo sconosciuta ai più, vuoi per la marginalità delle basse leghe svedesi, vuoi per la generale riluttanza dell’ambiente calcistico ad accettare una demitizzazione dei suoi idoli, normalizzandoli a persone comuni con conseguenti possibili problematiche – ha detto stop. Il motivo ufficiale è quello che si chiama psykisk ohälsa, termine che in svedese indica il concetto di salute mentale. Non è astratto: è la somma della capacità di far fronte allo stress, operare produttivamente sul luogo di lavoro e sentirsi realizzati. Salute mentale non vuol dire però assenza di disturbi mentali. È un concetto che tocca mindfulness, depressione, ansia, disturbi del sonno, apatia e, nei casi più gravi, istinti suicidi.

«Da quando ha 16 anni, lo sforzo di Jesper per diventare uno dei migliori portieri del Paese ha comportato grandi sacrifici. Le valutazioni di allenatori, dirigenti, compagni di squadra, media e tifosi creano una pressione inconscia. Da inizio anno, inoltre, Jesper ha avvertito uno stress crescente. La situazione, insostenibile, lo ha portato a prendersi una pausa. Ha attraversato un periodo molto difficile, gli è stata diagnosticata la depressione ed è giunto alla conclusione che oggi non ci sia più spazio, per lui, nel calcio professionistico», comunicava il Mjällby nel settembre 2019. «Credo che i disturbi mentali siano un problema che affligge il calcio professionistico molto più di quanto non sia visibile. Là fuori, molte persone si sentono male e io posso ispirare qualcuno a farsi avanti, e magari sentirsi meglio. In fondo, non siamo altro che esseri umani», dichiarava Johansson, che oggi collabora con l’organizzazione distrettuale RF-SISU nella Contea di Blekinge (ramificazione dell’ente statale per la promozione dello sport) e parla apertamente della sua patologia.

A fine aprile, ha voluto poi raccontarsi in un’intervista concessa in esclusiva all’Expressen. Rispondendo alle domande di una giornalista con la quale condivide il cognome (Josefin Johansson), Jesper ha rotto un tabù: dice di aver faticato a dormire più di tre ore a notte, ammette di aver temuto la morte, rivela di aver guidato intere notti pur di non restare a casa da solo. Riesuma gli esordi ad Hällevik, «un piccolo villaggio dove però chi mi stava intorno ha costruito grandi aspettative su di me», e i primi intoppi, come un infortunio nel precampionato: «Non sapevo davvero se ci sarebbe stato un posto per me in squadra, ero stressato, avevamo perso quattro delle prime cinque partite». Un giorno, il club manager del Mjällby, Fredrik Danielson, aveva notato come Johansson fosse più stanco del solito. Ammissione: «In quel periodo riducevo l’ansia con l’alcool, ma tutto è peggiorato. Come se il mio cervello fosse collassato. Una volta sono uscito di casa, ho camminato per 500 metri e sono dovuti arrivare dei miei amici a prendermi, a malapena riuscivo a tornare a casa».

I suoi amici non si sono fermati lì. Hanno accompagnato Johansson da uno psichiatra, dove è rimasto in cura per dieci giorni. Ristabilitosi, anche dopo essere tornato a casa ha proseguito a incontrare regolarmente gli psicologi. Per un istante, aveva pensato al ritorno in campo: «Volevo dimostrare a tutti che sarei riuscito a tornare indietro, a com’ero prima. Poi però ci ho riflettuto: che cosa avrei realmente dimostrato?». Così ha intrapreso una nuova vita e una nuova carriera. Nel dicembre 2019, il suo vecchio club – il Mjällby – lo ha assunto come preparatore dei portieri, posizione condivisa con Lars Levinsson. Nel frattempo, Johansson aveva già lanciato un’azienda tutta sua nella città di Sölvesborg, chiamata Träningsglädje, una palestra all’aria aperta di 53 m² in cui allenarsi: da soli, in gruppo, in coppia con un personal trainer.

Il focus di Johansson è naturalmente sulla salute mentale: «Il calcio odierno è fissato con le prestazioni, ma penso si lavori troppo poco su come si sentono i calciatori. È davvero un tabù. In pochi osano mostrare quello che sentono realmente, penso che ogni club in Svezia abbia almeno un giocatore con dei problemi di questo tipo, anzi lo posso giurare – ha continuato all’Expressen – se ti mostri debole in squadra o con l’allenatore, finisci in panchina o in tribuna. Io rimpiango di non aver ricevuto aiuto prima. Mi pento, ma è difficile mostrarsi debole: se ti mostri debole, allora verrai respinto. Perché le persone accusano la depressione? Perché fanno uso di droghe o cadono nell’alcolismo?».

L’altro bersaglio di Johansson è la macchina di produzione dei giovani calciatori. Un sistema che già aveva fatto prigioniero un suo connazionale, Martin Bengtsson, che arrivò all’Inter, patì di depressione e tentò il suicidio. Provò a tagliarsi le vene con un rasoio, quando una donna delle pulizie intervenne e gli salvò la vita [la sua storia ha ispirato il film Tigers, di Ronnie Sandahl]. In un’intervista al Sun, Bengtsson aveva raccontato di un terapeuta che, entrato nella sua stanza dopo il tentativo di togliersi la vita, quasi non seppe cosa dire: «È così strano, hai tutto ciò che si può desiderare nella vita. Tutto. Sei un calciatore di uno dei più grandi club al mondo, guadagnerai un sacco di soldi, potrai permetterti una bella macchina e tutte le donne che vorrai». A molti sembra che Jesper Johansson, di 12 anni più giovane di Bengtsson, ne abbia ripreso la missione, il pubblico disvelamento di quella patina di divismo sfrenato che offusca il mondo del calcio professionistico. Una cultura maschilista, attacca Johansson, «che vuole undici uomini duri come una roccia in campo». Problema endemico: del resto, continua, «visto che un 25enne non riesce a gestire la stampa, come può un bambino di 9 anni gestire le urla e critiche di genitori o allenatori?». 

Serve dunque una controcultura che abbatta i pilastri di un establishment malato. Nodi in gola da esternare, non per forza sui social media ma dinanzi alla comprensione di amici sinceri. Se il calcio professionistico non riesce a tollerare che un calciatore chieda aiuto, forse è il momento di smettere di considerare la richiesta d’aiuto una debolezza, quanto piuttosto un atto di forza. Tenendo sempre in mente che non tutti abbiano avuto la fortuna di possedere amicizie e un club intervenuti a tutela della propria salute mentale, come accaduto a Jesper Johansson. Un ex portiere dalla storia intrisa di compassione, che ambisce – in fondo – solo a ricordarci come in fin dei conti siamo tutti esseri umani. Esseri umani fragili.

[Si ringrazia sentitamente l’Expressen per aver permesso l’adattamento di parte dell’intervista di Josefin Johansson a Jesper Johansson, pubblicata il 26 aprile dal titolo ”Hur ska en nioåring klara att höra det?”. L’articolo originale lo puoi trovare qui: 

https://www.expressen.se/sport/foreningsliv/hur-ska-en-nioaring-klara-att-hora-det

Le cose belle si fanno sempre un po’ attendere … Come un gol al novantesimo

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