Cinquant’anni fa nel  Württemberg iniziò un campionato separato per immigrati. L’associazione calcistica locale fece la sua parte. Impedì attivamente che gli immigrati qui da noi si sentissero a casa.

di Bernd Sautter (con la collaborazione di Luka Babić)

Propheten der Liga, 18/11/2021

Traduzione di Roberto Brambilla

Succede solo nel  Württemberg. I club di migranti non potevano giocare nei regolari campionati. Questi Jugos, come venivano chiamati colloquialmente a quell’epoca, dovevano cortesemente rimanere tra di loro. Nella maggior parte delle associazioni calcistiche regionali della Germania Ovest le squadre jugoslave potevano come ovvio partecipare ai campionati „normali“. Solo lì, dove la maggioranza dei migranti proveniva dai Balcani, non era così. La WFV si rifiutava di ammettere i loro club ai tornei. Quando di conseguenza decisero di creare un proprio campionato, la WFV ha sostenuto con forza questa via speciale. Accoglienza in svevo: con il massimo distacco. La separata Jugoliga cominciò proprio nel momento in cui nella maggior parte della Germania calcistica le società di migranti provenienti da Italia, Grecia o Portogallo erano ammessi ai tornei normali.

Dare il benvenuto ai nuovi arrivati è diverso tra compagni di squadra. Gli Jugos potevano giocare tranquillamente tra di loro.  Radnik (i lavoratori) Sindelfingen contro Mladost (Gioventù) Wangen im Allgäu. Polet (Progresso) Ravensburg contro  Bratstvo (Fraternità) Schwenningen. L’universo parallelo calcistico chiamato Jugoliga è sopravvissuta due decenni. Nel 1992 si è dissolta. In quel momento la WFV sapeva già da lungo tempo che poteva non lodare l’emarginazione calcistica. Anche ai giocatori e alle società  il ricordo delle partite tutte insieme non andava bene nella loro visione del mondo. Allora loro erano croati, serbi, macedoni e sloveni. In parte si affrontavano con le armi in patria.

Dalle stazioni ai campi da calcio

Per decenni i ricordi sono rimasti nascosti negli album di foto e nei racconti di famiglia. Bisogna ringraziare Gojko Čizmić e Luka Babić, se il campionati di migranti non è stato totalmente dimenticato. I due si sono avvicinati al tema da differenti direzioni: Čizmić ha raccolto tutto quello che ha trovato sulla Jugoliga. Babić ci ha lavorato scientificamente. Lo storico ha recentemente presentato una tesi di master sul tema. È stato sostenuto soprattutto dal Dr. Ansbert Baumann, collaboratore scientifico al seminario di Storia contemporanea dell’università di  Tübingen.

Il testimone  Čizmić ha vissuto la Jugoliga dall’inizio, come giocatore del Metalac (Lavoratori metallurgici) Stuttgart. Fino ad oggi il campionato è stato la sua passione. Su Facebook lo si può seguire su „Jugoliga u Baden Württembergu“. Qualche mese fa ha pubblicato un librone di 400 pagine, in cui ha registrato tutti i risultati, i giocatori e i riepiloghi stagionali. Čizmić ha elencato in tutto 140 squadre. Al massimo della sua popolarità giocavano 87 club in una stagione. Facevano parte di un sistema in tre divisioni con regole per retrocessioni e promozioni.

Čizmić ribolle quando parla di allora. «Non avevamo niente. Al di fuori del lavoro non ci incontravamo alla stazione o nei ristoranti». Il calcio come medicina contro la tristezza dei Gastarbeiter. In questi luoghi d’incontro sono nate alla fine degli Anni Sessanta le prime società.

La Jugoliga ha ereditato la reputazione dei bar della stazione. Čizmić parla di una „Ghettoliga“. Mancava tutto: maglie, spogliatoi e campi. Quando le società dei migranti avevano fortuna, trovavano un club tedesco, che gli lasciava per un paio d’ore il campo d’allenamento. Le squadre e le associazioni tedesche guardavano altrove. Le autorità ufficiali della madrepatria li sostenevano soprattutto a parole. Sotto il profilo materiale li sostenevano solo fino a che, come sospettavano che potesse aiutare il lavoro diplomatico. Da un lato spingevano la Jugoliga, dall’altra evitavano di far arrabbiare le autorità tedesche. Così nacque un campionato camuffato con enfasi sul „camuffaggio“, che tra tanti ostacoli gioca. Forzata dalla Jugoslavia, organizzata dai migranti, tollerata dalla WFV.

Allora perché?

Qualche anno fa  Luka Babić ha scoperto quello che Čizmić continua a postare su Internet. Ha rovistato e ha trovato anche suo padre in una fotografia. Ivan Babic con con la maglia del Polet Ravensburg. Luka, nato nel 1993, giocava nelle giovanili del FV e TSG Ravensburg. Il tifoso del Werder Brema e del Hajduk Spalato ha studiato Storia all’università di  Tübingen. Il tema della sua tesi finale. „Jugos in fuorigioco“. Lo storico Babic è ancora oggi sconcertato quando pesa all’atteggiamento reazionario dell’associazione calcistica del Württemberg. «Un’intera generazione di giocatori migranti si è ritirata senza aver giocare contro formazioni tedesche. Non bisogna essere esperti di integrazione per riconoscere questa onta». Perché gli jugoslavi giocano in un loro campionato? E perché solo nel  Württemberg?. «Allora tutti volevano così ha scoperto Babic nella sua tesi del master». Lui intende le autorità jugoslave ufficiali, gli stessi migranti e l’associazione calcistica del Württemberg

Vista dalla prospettiva di Belgrado, si può riconoscere appena l’interesse. Il governo sotto il Maresciallo Tito voleva rafforzare con il calcio la coesione nazionale. Lo storico Ansbert Baumann la chiama „Formazione dell’identità nazionale all’estero“. La lingua e la cultura si mantiene meglio, quando gli jugoslavi stanno tra di loro. Tito era disponibile a questo, vuole una nazione coesa di slavi del sud. Nel Württemberg si è andati quasi più vicini a questo ideale che in patria. Anche i migranti erano all’inizio convinti della Jugoliga, il loro soggiorno sarebbe stato solo temporaneo. Si riunivano volentieri in club jugoslavi, un accogliente pezzo di patria all’estero. Dato che l’associazione calcistica del  Württemberg non ammetteva squadre „jugoslave“, loro si organizzavano da soli. Non avevano scelta.

Württemberg rimane ottuso

L’atteggiamento di blocco del WFV non si può spiegare solo con lo scenario della Guerra Fredda. Gli aridi comunicati nascondono appena il risentimento. Pubblicamente l’associazione aveva paura del „pericolo rosso“. Si voleva soffocare le eventuali proteste in culla. Tutto questo, nonostante la Jugoslavia appartenesse ai Paesi non allineati. Nonostante conoscessero gli jugoslavi da molto dalla Bundesliga, per esempio Zlatko „Tschik“ Čajkovski, Petar Radenković e Branko Zebec. Tutti simpatici. Tutti idoli del pubblico. Oltretutto di successo.

Quando le squadre jugoslave il 21 febbraio 1971 hanno fondato la Jugoliga, questo andava a vantaggio dell’associazione calcistica del Württemberg. Prima quando la DFB aveva fatto chiaro riferimento al fatto che un’associazione straniera sul proprio territorio andava contro ogni costume, sono diventati attivi quelli del  Württemberger. Tuttavia invece di integrare le squadre, hanno fatto il contrario. Hanno accolto il vantaggio dalla Jugoslavia e hanno segnato un gol decisivo contro l’integrazione. La Jugoliga separata venne consolidata, con l’associazione che accoglieva formalmente la loro organizzazione. «In primo luogo i migranti giocano tra loro» commenta Bubi.

Il separatismo della Jugoliga non era né carne né pesce. Funzionava infatti solo perché non era permesso nient’altro. Le squadre sorgevano come funghi, anche perché ne arrivavano sempre di più di jugoslavi in  Baden-Württemberg. Si era sparsa la voce che c’era lavoro. Dopo che la Germania Ovest aveva concluso nel 1968 un accordo di reclutamento per lavoratori e lavoratrici jugoslavi, i migranti dai Balcani arrivarono a flotte. Nel  Baden-Württemberg ce n’erano 200mila nel 1973. La prima squadra si era formata perfino prima dell’accordo di reclutamento: l’Adria Tuttlingen. Dopo che i lavoratori migranti era stati incanalati, venivano fondate squadre jugoslave in tutte le parti della zona. A Friedrichshafen gli venne dato il nome di una grande impresa. A Weinsberg la squadra venne battezzata Bosna. Delle denominazioni etniche come Bosna o Croatia le autorità ufficiali jugoslave non erano entusiaste, ma venivano accettate stringendo i denti. A Frickenhausen fu fondata il NK Marsonia. Tra i promotori c’era il noto Đuro Prosinecki, il papà di Robert, un futuro calciatore di fame mondiale.

La collaborazione tra WFV e la Jugoslavia portò prevedibilmente in fuorigioco, sotto il profilo sociale. La „costruzione della Nazione“ da Belgrado funziona. I compagni di squadra jugoslavi comunicano i risultati in patria. Da lì vengono sostenuti, al meglio possibile. Non con i soldi, ma soprattutto con il riconoscimento. Dalla madrepatria arrivano mute di maglie. Ad alcune amichevoli compaiono dirigenti di alto rango, a volte anche calciatori della Nazionale. Coppe e premi onorari vengono finanziati. Ad una grande amichevole al Neckarstadion, gli spalti sono pieni di decine di concittadini. La data era quella del „Giorno della Gioventù“, il giorno del mitico compleanno di Tito, che in patria da Lubiana a Skopje era festeggiato con feste delle sport e staffette.

Una logica fine

il campionato ha il boom negli Anni Sessanta, già negli Anni Ottanta iniziò a crollare. Le famiglie dei lavoratori migranti si adattano nella loro nuova Patria. E cosa fanno i loro figli? Già nelle seconde generazioni svanisce l’interesse per il folclore jugoslavo della propria famiglia. Loro vanno in scuole tedesche e hanno amici tedeschi. Si chiama integrazione. Alcuni di sabato giocano in squadre tedesche e domenica in quelle jugoslave, per far piacere ai genitori. Altri giocano esclusivamente per le squadre tedesche. Già prima della guerra nel loro paese i campionati separati si spengono. I giocatori degli inizi sono da lungo tempo pensionati. Gojko Čizmić riassume. «Siamo stati fortunati a poter giocare a calcio. Alla fine eravamo integrati. Solo non nel loro sport».

Con questa frase è d’accordo anche Luka Babić. Per lui occuparsi di Jugoliga è molto di più che aprire una finestra nel passato della sua famiglia. Accentua l’attuale rilevanza sociale. «Se vogliamo mettere le basi per una società socialmente sostenibile, dobbiamo imparare dagli eclatanti errori della Jugoliga Non possiamo chiudere le porte ai nuovi arrivati, solo per dopo creare scompiglio. Non si siederebbe più insieme a noi a tavola».

Le cose belle si fanno sempre un po’ attendere … Come un gol al novantesimo

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